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Il decreto ha mandato in tilt maggioranza e opposizione

Il segretario del Partito democratico Pier Luigi Bersani

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Il generale Ferragosto ha perduto la sua invincibilità in questa torrida estate politica, che ci ha rovesciato addosso un'altra tempesta internazionale dell'economia e della finanza. Questa volta il generale non ce l'ha fatta a vincere la sua battaglia, a dispetto delle apparenze. Che gli potrebbero pure assegnare l'ennesima vittoria, essendo mancata la caduta del governo sognata da almeno una parte dell'opposizione. In realtà, è scoppiata in Italia qualcosa di ben più vasto e grave di una crisi ministeriale. È passato uno tsumani sul governo, sui partiti che lo compongono o lo sostengono, su quelli dell'opposizione e sulle cosiddette forze sociali. Nulla potrà tornare ad essere come prima. Sono cadute troppe certezze e illusioni perché si possa fare finta di niente. E pensare magari di cavarsela con qualche aggiustamento della manovra fiscale all'esame del Senato o, peggio, da parte della solita Cgil, che cambia segretari ma non politica e abitudini, con la proclamazione di uno sciopero più o meno generale. Proprio la manovra all'esame del Senato, imposta per i tre quarti dalla Banca Centrale Europea per poter continuare a sostenere sui mercati i titoli del debito pubblico italiano e per il rimanente quarto dal rifiuto della Lega di toccare il costosissimo privilegio delle pensioni anticipate di anzianità, ha mandato in tilt per primo il maggiore partito italiano, il Pdl. E ne ha messo a dura prova, peraltro, il segretario ancora fresco di nomina o elezione Angelino Alfano. La componente più dichiaratamente e orgogliosamente liberale del partito del presidente del Consiglio si è sentita giustamente tradita dal troppo pesante ricorso alle tasse per abbreviare i tempi del pareggio di bilancio e se l'è presa, meno giustamente, non tanto con la Lega quanto con la componente «socialista» dello stesso Pdl e del governo. Alla quale continua a considerare iscritto d'ufficio il ministro dell'Economia Giulio Tremonti, che proverrà pure dal Psi ma è in sintonia più con Umberto Bossi, per esempio, che con il collega sicuramente socialista Renato Brunetta, da lui recentemente liquidato come un «cretino», se non ricordo male. Su questo giornale si è già svolto, ben prima che altrove, un urticante dibattito, in occasione della prima manovra fiscale e finanziaria d'estate, quella di luglio, sul quoziente più liberale o socialista della politica del governo guidato dal Cavaliere. Non vorrei qui riaccendere o inasprire la discussione, ma mi sembra, oltre che ingiusta, foriera di brutti effetti elettorali per il già sofferente Pdl una certa animosità nei riguardi dei socialisti. Essa sarebbe congeniale più alla storia antisocialista dei comunisti, e dei loro eredi o emuli nel Pd di Pier Luigi Bersani, che alla storia dei liberali autentici. Le tensioni e la confusione nel Pdl impallidiscono comunque rispetto a quelle della Lega, dove le concessioni alla demagogia e agli sperperi delle pensioni anticipate d'anzianità, delle Province e dei Comuni non sono state sufficienti a placare le peggiori pulsioni della base, o di certi certi vertici. La rappresentazione fisica della crisi della Lega sta nella recente fuga di Umberto Bossi in canottiera dai luoghi dove si sentiva sino a poco tempo fa venerato, e ora invece rischia penose contestazioni. Non so francamente se i maroniti, intesi non come comunità monastica del Medio Oriente naturalmente ma come amici del ministro dell'Interno Roberto Maroni, faranno in tempo o saranno capaci di ereditare il Carroccio per rimetterlo in carreggiata. E non per certificarne il fuori gioco politico nel nuovo scenario che potrebbe nascere prima o in vista delle elezioni politiche del 2013, se non verranno naturalmente anticipate. Come la stessa Lega peraltro avrebbe voluto già nei mesi scorsi e potrebbe tornare a desiderare nei prossimi, viste la rapidità e la disinvoltura con le quali cambia posizioni su questo ed altri temi. Sul fronte delle opposizioni il primo a perdere la testa di fronte ai mercati è stato forse Antonio Di Pietro, che ha dimenticato di un colpo la svolta di ragionevolezza e moderazione annunciata, o promessa, dopo i successi referendari di giugno sul nucleare, sull'acqua e sulle pendenze processuali del Cavaliere, quando diffidò il segretario del Pd Bersani dal tentativo di investirli in una spallata contro il governo. Che è esattamente quella che lui ha ripreso a chiedere e sostenere nelle aule parlamentari prima della breve sospensione estiva dei lavori. Bersani, dal canto suo, alla spallata ha mostrato di non voler più puntare non dopo i moniti poi contraddetti da Di Pietro, ma dopo un incontro al Quirinale con Giorgio Napolitano. Che gli ha probabilmente spiegato come una crisi di governo, peraltro impedita dalla presenza di una maggioranza parlamentare, non sia proprio il modo migliore per fronteggiare la turbolenza dei mercati. Ma deve essersi dimenticato, il povero Bersani, di spiegarlo al suo capogruppo alla Camera Dario Franceschini, che ha continuato ad attribuire ad una crisi di governo addirittura l'equivalente di una triplice e fruttuosa manovra finanziaria antispeculativa. Dal cosiddetto terzo polo Pier Ferdinando Casini ha certamente mostrato maggiore responsabilità e misura, ma determinandone di fatto la liquidazione perché è subito scoppiata una rissa fra i finiani disposti a seguirlo e quelli irriducibili nella pretesa della testa del Cavaliere. La chiusura di questa rassegna delle macerie politiche dello tsumani economico e finanziario di questa torrida estate spetta al presidente della Confindustria Emma Marcegaglia. Che ha scoperto il carico troppo fiscale dell'ultima manovra del governo dopo averne di fatto favorito i presupposti come portavoce delle cosiddette parti sociali, compresa la Cgil, contrarissima all'unica alternativa possibile a maggiori e nuove tasse. È il taglio «strutturale», cioè vero e permanente, delle spese ormai insostenibili della previdenza e della sanità, oltre che della politica, a livello sia nazionale sia locale.

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