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E' un liberalismo duro. Ma è l'unica strada

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Caro direttore, proprio mentre si torna a parlare di quelle riforme liberali di cui il Paese ha bisogno ma che non riescono a trovare un promotore davvero deciso nemmeno nel più liberale dei suoi figli (ovviamente il nostro caro Cav), tu dunque mi proponi di raccontare come, quando e perché il virtuoso comunista che immaginai di essere nel tempo triste della giovinezza si decise a diventare il perverso liberale che credo di essere oggi. Dovrei quindi riferire attraverso quali esperienze pratiche e teoriche ho scoperto la miseria del social-comunismo e la grandezza del liberal-liberismo. Dovrei cioè ricordare, insieme ai grandi eventi che fra gli anni Cinquanta e Settanta mi obbligarono a fare quel passo, anche le molte letture che mi illuminarono durante quel tragitto. Fra le quali spiccano, ovviamente, i testi dei grandi critici del totalitarismo, dai nostri Silone e Chiaromonte agli splendidi Arhur Koestler e Hannah Arendt, sia i saggi magistrali di von Hayek e von Mises sull'essenza del liberalismo. Dopo aver reso omaggio alle indispensabili lezioni di questi eletti maestri devo però confessarti che nessuna di quelle letture mi predispose a quella metamorfosi come il cinema americano degli anni Trenta e Quaranta, e in particolare i suoi strepitosi gangster-movies, che mi trasmisero il seme di un confuso ma potente amore per la società capitalistica. E il testo che contribuì nel modo più efficace a confermarmi in quell'amore non è il saggio di uno studioso bensì un'intervista del gangster più leggendario degli anni ruggenti. Mi riferisco alla lezione di vita e pensiero che Al Capone, nel dicembre del 1927, quando per lui e il suo piccolo impero si stava ormai avvicinando l'ora del tramonto, impartì una sera a un cronista del «Chicago Tribune». Eccone qualche passo: «Domani me ne vado a St. Petersburg, Florida. Che i ricchi di Chicago si procurino come meglio possono i loro alcolici. Io sono stufo di questo lavoro, mai nessuno che ti ringrazi, me ne vengono solo pene (...) Gli anni migliori della mia vita li ho spesi facendo il pubblico benefattore. Alla gente ho regalato piccoli piaceri, ho insegnato loro a spassarsela, e che cosa ne ho ricavato? Soltanto soprusi, un'esistenza da perseguitato (...) Servire il pubblico è il mio motto. Il novantanove per cento della gente a Chicago beve e scommette. Io ho cercato di procurargli liquori decenti e giochi onesti. Ma è tutto inutile: non mi apprezzano (...) Peggio di un ladro c'è soltanto un ladro che sta dentro alla politica: uno che pretende di lavorare per la legge e che invece fa un bel po' di grana grazie a qualcun altro che la viola. (...) Un criminale che si rispetti non se la intende con quel genere di persone: le compra, piuttosto, come comprerebbe qualsiasi altro articolo di qualche utilità per il suo commercio, ma le odia dal profondo del cuore». Quando il cittadino Capone Alfonso detto Al, figlio di un povero barbiere di Castellammare di Stabia emigrato negli States verso la fine dell'Ottocento, tenne questa breve dissertazione sul senso della sua missione, nonché sui rapporti fra vizi privati e pubbliche virtù, o, se si preferisce, fra criminalità comune e criminalità politica, aveva solo ventisette anni. Ma la sua carriera di gangster, che era incominciata a Brooklyn suppergiù un decennio prima, nel giro dei postriboli, portandolo poi in pochi anni sulla vetta della gloria criminale, stava ormai già volgendo verso la sua tragica fine. Quattro anni dopo sarebbe arrivato l'arresto per evasione fiscale. Poi l'esplosione, in carcere, della follia, tardo effetto della sifilide contratta da ragazzino. Infine la morte, che lo colse, devastato da quella malattia, a quarantotto anni. Mi sembra evidente che questa intervista aggiunge una nota di genialità a un capitolo fondamentale della storia dell'emigrazione italiana negli Stati Uniti. Ma che c'entra tutto questo col mio amore per la società liberale.? Be', per capirlo basta ricordare che in quegli stessi anni, mentre negli Usa, insuperato esempio di società aperta e liberale, quel piccolo boss italiano, praticando l'arte del crimine al dettaglio, permetteva agli americani di spassarsela in bische, bordelli e mescite clandestine, nel paradiso comunista una banda di ben altri caporioni aveva già incominciato a praticare quell'arte all'ingrosso per permettere a milioni di disgraziati di spassarsela nel gulag. Credo sia superfluo aggiungere – e concludo – che il confronto sembrerà ancora più istruttivo se se si osserverà che mentre i morti ammazzati da quel piccolo malfattore deciso, come diceva lui, a «servire il pubblico», si contano sulle dita di una mano, si contano invece a milioni quelli ammucchiati ai piedi dei tanti grandi benefattori che in quegli anni cercarono, come dicono loro, di «servire il popolo». Dal che si può agevolmente inferire che persino i lati più sinistri e tenebrosi di una società liberale sono sempre molto meno oscuri dei lati più luminosi di qualsiasi paradiso socialista.

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