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Colpire Letta per ipotecare il Colle

Gianni Letta e Giorgio Napolitano

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«Il triangolo delle Bermude»: così Emanuele Macaluso titolò il 12 maggio scorso sulla prima pagina de Il Riformista, di cui aveva appena  assunto la direzione, un "avviso speciale ai naviganti" mandatogli dal vecchio amico Rino Formica. Che faceva un paragone fra l'ultimo biennio di Giorgio Napolitano al Quirinale e quello di Francesco Cossiga, dal 1990 al 1992. Allora si scatenò sotto traccia una spietata corsa alla successione, che finì per intrecciarsi drammaticamente con la crisi della cosiddetta Prima Repubblica, seguita alla caduta del muro di Berlino e a tutti gli equilibri politici che alla sua ombra si erano creati anche in Italia, e infine con le indagini giudiziarie "Mani pulite". Che condizionarono pesantemente gli sviluppi della situazione politica. "Molti dei veleni che si liberarono in quel biennio sono ancora in circolo o sono in depositi coperti", scrisse Formica prospettando l'ipotesi di una soluzione a sorpresa di un'ennesima, distruttiva corsa al Colle più alto di Roma: la rielezione in qualche modo obbligata di Napolitano. Che Macaluso, molto legato allo stesso Napolitano, definì in modo un po' ammiccante una "impossibile possibilità", proiettata "in una turbolenza di dimensioni imprevedibili". "Uno tsumani", concluse l'ex dirigente comunista auspicando un dibattito che noi, qui a Il Tempo, cercammo di stimolare, ma che si spense con il sopraggiungere delle elezioni amministrative e dei referendum. I cui risultati hanno prodotto un oggettivo peggioramento del quadro politico. Sono peggiorate, in particolare, le condizioni della maggioranza, uscita sconfitta sia dalle urne amministrative sia da quelle referendarie, per quanto abbia poi superato la verifica parlamentare chiesta già prima degli appuntamenti elettorali dal presidente della Repubblica. Ma non sono migliorate le condizioni dell'opposizione, le cui componenti sono risultate proprio dalla verifica ancora più divise, incerte e incapaci di esprimere una seria e credibile alternativa al governo in carica. Lo scontro appena consumatosi nell'aula di Montecitorio fra Antonio Di Pietro, peraltro reduce da un inatteso colloquio con il presidente del Consiglio, e il segretario del Pd Pier Luigi Bersani la dice lunga sulla crisi degli avversari del Cavaliere. Con la maggioranza e l'opposizione è ormai in sofferenza l'intero sistema istituzionale, quella che da 17 anni chiamiamo la Seconda Repubblica. Dalla quale rischiamo di uscire senza poter neppure immaginare i contorni e la fisionomia della terza, come in fondo accadeva per il passaggio dalla prima alla seconda nel biennio 1992-93 ricordato il mese scorso da Formica a Macaluso. Così anche questa volta la scadenza del Quirinale, fra due anni, si carica di insidie. Nei cui interstizi troviamo, come nel 1992, una indagine giudiziaria che investe la politica. Gli arresti sinora sono meno numerosi di allora, ma le carte e gli sputtanamenti no. Anche oggi il fango delle rivelazioni, dei verbali e delle intercettazioni, raccolte e diffuse stavolta in quantità industriali, lambisce e tende a danneggiare candidati reali o potenziali anche al Quirinale: per esempio, il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Gianni Letta. Che non è solo il collaboratore più stretto e fidato di Berlusconi, da lui indicato più volte come l'uomo ideale per salire sul Colle nel 2013, alla scadenza del mandato di Napolitano, ma anche la personalità del centrodestra più capace di interloquire con lo schieramento avversario. Le indagini giudiziarie del 1992, pur gestite malissimo, indirizzate solo o prevalentemente contro gli allora partiti e uomini di governo, avevano tuttavia una base reale. Che era il finanziamento illegale dei partiti e, più in generale, della politica. A Napoli invece si indaga, si intercetta, tintillano manette e si sputtana, all'ombra di una immaginaria P4, su cose da gossip, dietro, sotto e sopra le quali anche uno specialista come Di Pietro ha ammesso di avere difficoltà a scorgere reati. Un'autentica schifezza.

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