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Dopo la verifica resta il "nodo" Fini

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Gianfranco Fini

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Ora che il Parlamento ha proceduto alla «verifica» della maggioranza, chiesta dal capo dello Stato dopo la nomina di nove nuovi sottosegretari, bisogna decidersi a sciogliere il nodo della Presidenza della Camera. Che va restituita ad una neutralità non più garantita da Gianfranco Fini, ormai incapace di nascondere nella conduzione dei lavori parlamentari la voglia di vedere battuta la maggioranza. Eppure le condizioni del Paese imporrebbero, come raccomanda spesso il presidente della Repubblica, di «lavorare tutti insieme»: cosa cui ha confermato la sua disponibilità il presidente del Consiglio nei discorsi, appunto sulla verifica, pronunciati l'altro ieri al Senato e ieri alla Camera. Invece Fini nella stessa aula di Montecitorio dà incredibilmente l'impressione di cercare la lite. Di «lite» con il Pdl, e con gli altri gruppi della maggioranza, ha parlato ieri in un vistoso titolo di prima pagina un giornale non certo sospettabile di simpatie per il governo come la Repubblica, riferendo su una vicenda forse modesta ma significativa in questa congiuntura politica. È accaduto, in particolare, che con una irritualità e imprudenza senza precedenti il presidente della Camera l'altro ieri, seduto al suo posto, ha definito «furberia tattica», utile solo ad evitare che la maggioranza fosse «battuta», la rinuncia del capogruppo del Pdl a far votare un ordine del giorno concordato con la Lega sul tema controverso del cosiddetto trasferimento di alcuni Ministeri al Nord. Che poi è diventato, con la presentazione proprio di quell'ordine del giorno, la possibilità di aprire al Nord, o altrove, uffici operativi di rappresentanza ministeriale a costo zero. La rinuncia al voto, consentita dal regolamento, è stata annunciata perché il governo aveva espresso parere favorevole al documento e si era quindi impegnato a muoversi nella direzione e nei limiti in esso indicati. A quel punto la questione risultava superata. Ma Fini avrebbe evidentemente preferito che si votasse lo stesso, sperando nella sopravvivenza di qualche dissenso nella coalizione di governo e in un conseguente inciampo della maggioranza. Ed ha mostrato questo desiderio con una franchezza che gli può fare onore come semplice deputato, di opposizione naturalmente, ed anche come un cronista, se lo fosse, ma non come presidente dell'assemblea. Glielo ha giustamente e prontamente rinfacciato nella stessa aula il capogruppo del Pdl Fabrizio Cicchitto, dopo che altri del suo schieramento avevano già fatto sentire le loro proteste, rintuzzate dalle opposizioni. Che sono ormai incapaci di vedere e rispettare i confini fra i loro ruoli politici e il ruolo istituzionale di un presidente d'assemblea. Nel momento in cui il capo dello Stato chiese una verifica parlamentare, cioè una certificazione, delle novità intervenute nella maggioranza con la nomina di tre sottosegretari, dei nove appena nominati, non eletti tre anni fa alle Camere nelle liste della coalizione guidata da Berlusconi, noi de «Il Tempo» invitammo il centrodestra a non protestare o mugugnare, come si era cominciato a fare. «Vi conviene», gridammo in un vistoso titolo di prima pagina. E lo spiegò nel suo editoriale il direttore Mario Sechi. La convenienza stava proprio nel fatto che la verifica avrebbe reso più chiaro il quadro politico, e più evidente l'anomalia di una presidenza della Camera di parte. Un'anomalia nel frattempo cresciuta, non certo diminuita, per cui chi può, in alto, è pregato di fare qualcosa per rimediarvi. E presto.

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