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Dopo Fini servivano le urne

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Gianfranco Fini a Porta a Porta. Sullo sfondo un'immagine di Silvio Berlusconi

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È inutile fare finta di nulla. L'esito dei quattro quesiti referendari ha un significato politico sul quale è necessario riflettere.  Che gli italiani - dopo anni e anni di totale disinteresse per le consultazioni referendarie - abbiano deciso di recarsi in massa alle urne per esprimersi su un referendum caricato di valenza politica e presentato al corpo elettorale come una occasione per colpire il governo e la leadership berlusconiana è un fatto che dimostra come il presidente del Consiglio non abbia più quegli elevati livelli di consenso dei quali era giustamente orgoglioso. E che tale analisi sia esatta lo conferma il fatto stesso che i risultati del quesito relativo al cosiddetto «legittimo impedimento», quello cioè di più diretto interesse per il premier, non siano stati molto diversi da quelli degli altri quesiti. Si potrà ben osservare come una quota parte di coloro che si sono recati al voto fossero realmente interessati al merito dei singoli quesiti e non già alle implicazioni politiche del referendum, ma non si può negare che si tratti di una minoranza e che il significato complessivo del voto sia quello di una esplicita presa di distanza dalla coalizione di centro-destra e da un premier la cui immagine pubblica appare fortemente appannata. La verità è questa. E bisogna prenderne atto. Il risultato della consultazione referendaria è netto. E si muove nella direzione già segnata dalle ultime elezioni amministrative. Denuncia l'insoddisfazione del Paese per la mancata attuazione di una politica autenticamente liberale sulle quale si erano concentrate tante attese e tante speranze. E della quale Silvio Berlusconi era in qualche misura percepito, a torto o a ragione, come l'ispiratore. Che il fallimento, se così vogliamo chiamarlo, sia pure parziale, della «rivoluzione liberale» - usiamo pure questa brutta e contraddittoria espressione - non sia imputabile, tutto e solo, a Berlusconi è un dato di fatto che le persone oneste debbono riconoscere. Tanto più che, nella bilancia dell'attivo e del passivo, sono ben presenti e pesano i sintomi di rinnovamento del sistema politico nel suo complesso e i tentativi di ammodernamento e semplificazione della macchina burocratica. E basterebbe, in proposito, richiamare l'attenzione sull'alternanza politica, divenuta ormai una prassi, e sulla proposizione al corpo elettorale, in sede di campagna elettorale, di programmi di coalizione e di governo alternativi. Si tratta, rispetto alla deriva oligopolistica della prima repubblica, di vere e proprie conquiste, certamente in linea con i principi di una democrazia autenticamente concorrenziale e liberale. La crisi di credibilità del centrodestra è, con ogni probabilità, iniziata quando, dopo il tradimento di Fini e del Fli e dopo l'inverecondo assalto giudiziario e mediatico cui è stato sottoposto, Berlusconi non ha avuto la lucidità necessaria per imporre, con un colpo d'ala, il ricorso anticipato alle urne e si è imbarcato in una campagna tesa ad acquistare consensi parlamentari e si è visto costretto a creare posti di sottogoverno per contentare gli appetiti dei sostenitori dell'ultima ora. È stata una strategia devastante che lo ha costretto a scendere a compromessi e a cedere a ricatti, più o meno manifesti. È stata una strategia che ha fornito l'impressione di un ritorno al passato, alle pratiche più nefaste della partitocrazia e della correntocrazia dei tempi che furono. Gli elettori del Popolo della libertà - coloro che avevano visto scendere in politica nel 1994 come l'incarnazione della volontà di rinnovamento e come il cavaliere dell'antipolitica trasformata in politica - non potevano che chiedersi dove fosse finito Berlusconi, il Berlusconi che conoscevano, che ammiravano, che erano disposti a seguire. Ora, davanti a loro, c'era un nuovo Berlusconi incapace di reagire di fronte alle pressioni di un Quirinale, sempre più esondante dalle sue prerogative istituzionali, e di fronte alle richieste, sempre più imperative e demagogiche di una Lega divenuta, pur essa, prigioniera dei vizi della vecchia politica a cominciare dal nepotismo. E questo nuovo Berlusconi non era più percepito come l'uomo capace di interpretare il sentire comune della popolazione e di esprimere, anche con toni provocatori ma sempre con franchezza, ciò che il cittadino qualunque pensava e, magari, non aveva il coraggio di dire apertamente. Il nuovo Berlusconi era diventato, insomma, un vecchio politico, prigioniero, forse suo malgrado, dei riti del passato e dell'oligarchia venutasi a consolidare attorno a lui. E la gestione, tutta sbagliata, della campagna elettorale per le amministrative non ha fatto che confermare questa impressione. Non credo che le vicende private di Berlusconi - così come sono state enfatizzate da una campagna mediatica e da una offensiva giudiziaria volte a screditarne, con criminale incoscienza, l'immagine pubblica soprattutto all'estero e a suggerire l'idea che l'Italia vivesse ormai una situazione da basso impero - abbiano avuto un peso determinante nell'offuscamento della sua immagine. Hanno contribuito, certo, a indebolirla, in particolare presso l'universo femminile, ma non in maniera decisiva. Credo, piuttosto, che le cause profonde del declino di Berlusconi siano, soprattutto, di natura politica: la incapacità di rendersi conto che settori del suo «popolo» - segnatamente i ceti medi tartassati - lo stavano abbandonando o stavano, quanto meno, scegliendo l'Aventino mentre le nuove leve di giovani sempre più prestavano orecchio alle sirene della sinistra radicale e antipolitica. Ma anche, diciamolo pure, la sua sordità a intervenire in maniera incisiva con un programma di ridefinizione, organizzazione, rilancio del Pdl e di tutto il centrodestra. Mi viene in mente quanto, nel febbraio del 1941, Galeazzo Ciano confidò al suo amico Giovanni Ansaldo a proposito di Mussolini: «L'uomo ha delle facoltà di autoillusione enormi. Non si rende affatto conto dello stato d'animo del popolo e dell'esercito; se questo stato gli è testimoniato da qualcuno, non vi crede». Sono parole di settanta anni fa che sembrano pronunciate oggi per Berlusconi. I risultati della consultazione referendaria - se questa analisi è esatta - segnano davvero la fine di un ciclo. Anche se, come sembra, sembrerebbe prevalere, in molti settori dell'area di centrodestra, la tentazione di sottovalutare le conseguenze politiche del voto e continuare a vivacchiare alla giornata. Sarebbe necessario un colpo di timone capace di recuperare davvero lo «spirito del '94» e far tornare a soffiare il vento della «rivoluzione liberale». Realisticamente, però, l'impresa è difficile, disperata anzi, per mancanza di idee, volontà, uomini. L'ipotesi più probabile, in mancanza di ciò, è una implosione del centrodestra. E con essa la fine di un sogno. Con lo spettro, sullo sfondo, di una crisi istituzionale perché il centrosinistra, quand'anche riuscisse vincitore in una prossima consultazione elettorale, non sarebbe capace di governare, diviso com'è su tutto tranne che sull'odio nei confronti di Berlusconi. Povera Italia.

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