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Il Cav ritorna a Roma "È il vento della protesta"

Silvio Berlusconi:

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La linea è chiara: minimizzare. Ripetere ossessivamente che il Pdl aveva dato libertà di voto e dunque il responso delle urne non coinvolge il governo. Insomma, aveva messo le mani avanti. Questa è la linea in pubblico. In privato nessuno dei big del partito del premier se la sente di far finta di nulla. Nessuno se la sente di prenderla con leggerezza anche se non è ancora il tempo di renderlo pubblico. Piuttosto comincia a serpeggiare una certa preoccupazione. E poco conta a questo punto se il quorum al referendum sarà raggiunto o no. I dati di affluenza di urne parlano di una partecipazione al livello delle grandi battaglie della storia repubblicana d'Italia come aborto o divorzio. Sebbene stavolta una parte politica, quella che corrisponde alla maggioranza parlamentare, di fatto non abbia partecipato alla campagna elettorale. O abbia apertamente fatto propaganda per la diserzione delle urne. Berlusconi non sottovaluta. Ieri sera ha preso l'aereo dalla Sardegna ed è ritornato a Roma. Chi ci ha parlato a telefono dice che non era nemmeno più tanto convinto che non andare al seggio sia stata una scelta giusta. Per il resto, una volta tornato a palazzo Grazioli e conosciuto il dato di affluenza delle 19 oltre il 30 per cento, anche il Cavaliere ha dovuto ammettere che è un dato non indifferente. Ha messo le mani avanti con il solito ritornello: «È il vento della protesta. Ha colpito tutti i governi europei. Guardate Zapatero. La Merkel. E persino Sarkozy». Chi ha raccolto i suoi sfoghi racconta anche che si sia lasciato scappare: «Questo vento è arrivato anche in Italia». Dice un big del Pdl che supplica di non essere citato: «Se alla gente gli strizzi i coglioni per anni a un certo punto chiunque si ribellerebbe». Sereno. Berlusconi resta sereno. Assolutamente non pensa a gettare la spugna. Al contrario. «Ora più che mai dobbiamo fare le riforme. Tutte le riforme», continua a ripetere. E il riferimento scivola via verso il ministro dell'Economia. «Tremonti sta cominciando a capire che non può continuare a fare il primo della classe - insiste il premier con un ministro che lo ha sentito -. Per un certo periodo di tempo ci è anche servito, ha avuto il grande merito di tenere in ordine i conti. Ora però non basta più». Sa che la Lega continuerà a fare pressing sul titolare del dicastero di via XX settembre e comunque è conscio del fatto che Tremonti è isolato: «La linea del governo è chiara, dovrà adeguarsi». Insomma, è convinto l'uomo dell'Economia si metterà in riga. Adesso il premier sta immaginando di aprire una nuova fase. Che si schiuda la strada anche alle riforme istituzionali. È un'idea che già gli balenava nella testa negli ultimi giorni quando per esempio con Claudio Scajola ragionava su una convergenza con pezzi dell'opposizione. Opposizione, sia chiaro. Anche in privato Berlusconi non parla più di «sinistra» e tantomeno di «comunisti». Il riferimento è all'Udc, in prima battuta. Ma anche a quegli spezzoni di Fli che potrebbero ritrovarsi se venisse ripreso in mano il programma del 2008. «Se l'opposizione capirà il momento, potremmo pensare a fare qualcosa di utile per il Paese», ragione un alto esponente del Pdl. Possibile? Al momento sembrerebbe di no. Chi è che si presterebbe ad andare in soccorso a un governo che viene da due grosse batoste? Prima le sconfitte di Milano e Napoli (ma andrebbe aggiunta anche Cagliari), poi il referendum. E soprattutto: quale sarebbe la contropartita?

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