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Il ministro espiatorio

Giulio Tremonti

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Tutte le sconfitte elettorali in un partito conducono inevitabilmente a una resa dei conti. Quella sofferta dal Pdl è grave e addirittura il dibattito interno (chiamiamolo così) era cominciato a urne ancora aperte. Visto il patatrac, come in tutte le storie dove c'è una caduta, si cerca un capro espiatorio. Nella Prima Repubblica era il segretario a caricarsi sulle sue spalle il peso della disfatta e a cercare le soluzioni per uscire dalla crisi. Purtroppo nel Pdl, come in tutti i partiti della Seconda Repubblica, questo ordinato processo di revisione interna delle cose fatte (giuste o sbagliate) è stato sostituito dall'esternazione casuale e dalla riduzione a slogan di problemi profondi. Era chiaro fin dal principio che Giulio Tremonti sarebbe stato il candidato naturale alla «colpa». Non ci sono dubbi, è sua la politica economica del governo, ma questa è stata condivisa sia dal presidente del consiglio sia dai ministri che compongono l'esecutivo. È la linea che ha consentito non solo all'Italia di non finire come la Grecia, il Portogallo e la Spagna, ma ha dato al premier la possibilità di pesare in Europa con una politica di rigore e controllo del bilancio dello Stato. A Tremonti si possono rimproverare molte cose, ma è una persona seria, fin troppo rigorosa semmai. La tentazione di rovesciare il suo tavolo è grande e lo capisco, ma non è il momento per mandare a carte quarantotto un'esperienza politica che francamente è l'unica spendibile ora di fronte alla comunità internazionale. Berlusconi, che fino a ieri è stato uno straordinario aggregatore di forze, deve ritrovare il filo conduttore della sua politica e apparecchiare ancora una volta il tavolo di chi pensa e fa, non quello di chi urla e disfa. Il governatore di Bankitalia Mario Draghi ha indicato la crescita come una priorità, ma non scollegata dall'equilibrio e dal controllo della spesa. Aprire la borsa senza poi sapere come spendere i soldi sarebbe un altro errore. E questo lo pagheremo tutti noi.  

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