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Lo squilibrio di Tettamanzi

Il cardinale Dionigi Tettamanzi

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Un amico frate cappuccino mi disse più di quindici anni fa che il cattolicesimo aveva, dopo la Santissima Trinità, un altro fondamento: l'equilibrio. Non un equilibrio statico, che non esiste. Un equilibrio dinamico, frutto di tensioni contrapposte ben modulate e polarizzate. Risultato, appunto: l'equilibrio. La Chiesa è grande per il suo "et-et". La sua capacità di scrutare l'orizzonte della storia a partire da un punto di vista superiore. Lassù, da quelle parti, si respira un'altra aria e, come quando si sale ad alte quote, si perdono le scorie delle poco fertili bassure, per guadagnare salute e tono. Ecco, con tutto il rispetto che manifestiamo, da sempre, nei confronti dei Cardinali di Santa Romana Chiesa, l'omelia della Domenica delle Palme del Cardinale Arcivescovo della più grande diocesi d'Europa, quella di Milano, Dionigi Tettamanzi, ci ha lasciato l'amaro in bocca. Spieghiamo il perché. Innanzitutto, per il tono, non accompagnato e sostanziato di quel sano senso religioso e del necessario equilibrio. In realtà, ciò che colpisce è l'accento accusatorio, ben poco pastorale, in un'occasione così solenne. Il tono fa la musica. Ad esempio, come interpretare quella domanda: «Perché molti agiscono con ingiustizia, ma non vogliono che la giustizia giudichi le loro azioni?». «Molti»: chi? Chiariamo subito. A cosa serve parlare di Berlusconi, senza nominarlo esplicitamente, in un'occasione come questa? Aiuta i fedeli a crescere nella fede? Non mi pare. Aiuta a leggere la storia con equilibrio? Non credo. Perché allora ostinarsi a fare da cassa di risonanza a fazioni ideologiche e politiche antiberlusconiane? Si dirà: ci sono altri autorevoli esponenti della Chiesa che non ammirano Berlusconi e hanno manifestato apertamente il loro dissenso nei confronti del premier e di certi suoi costumi privati. Benissimo, è legittimo e, ad un certo livello, perfino salutare. Chi scrive pensa da tempo che vizi privati e pubbliche virtù sia ormai formula del passato e che si stia entrando nell'era dei vizi privati senza pubbliche qualità (basterebbero queste, senza invocare la virtù) e il Direttore di questo giornale ha scritto nero su bianco cosa pensasse della questione: chi guida il Paese deve avere comportamenti adeguati alla sua carica. Ciò detto, c'è una piccola differenza da segnalare: Mario Sechi non è un Vescovo. Fa un altro mestiere. È un laico e, come tutti i laici, di un Vescovo apprezza l'autorevolezza dogmatica, non la quanto mai oscura qualità di "profeta". La profezia non si addice a Vescovi e Cardinali, i quali, invece, rappresentano l'aspetto gerarchico e l'equilibrio della Catholica. Benedetto XVI rappresenta l'equilibrio e la sobrietà che vorremmo sentire nei pensieri di molti Vescovi. Don Orione aveva forse ragione nel dire: «La nostra fede è il Papa». Così vien fatto di pensare, quando vengono pronunciati certi quesiti: «Perché tanti vivono arricchendosi sulle spalle dei paesi poveri, ma poi rifiutano di accogliere coloro che fuggono dalla miseria e vengono da noi chiedendo di condividere un benessere costruito proprio sulla loro povertà?». Anche in questo caso, mi sfugge il nesso con la Domenica delle Palme. Tettamanzi pone una domanda ad interlocutori di altri Paesi. Perché noi italiani stiamo facendo tutto il possibile per accogliere lo straniero e il derelitto. Chi si arricchisce sui paesi poveri non abita qui. La Francia - è di tutta evidenza - nega asilo ai migranti tunisini, non l'Italia, terra ancora cristiana e sensibile alle difficoltà dei più poveri. Proprio nei gesti del nostro popolo, il Cardinale Tettamanzi dovrebbe leggere l'umiltà e il dono di sé, virtù richiamate come antidoti all'egoismo e alla violenza. A ben guardare, queste virtù vengono assegnate, come atto dovuto, ai pacifisti, ancorché unilaterali nelle loro posizioni ideologiche. Ma funziona così nel mondo delle ideologie. Anche rivestite di panni sacri. Sono proprio «tempi paradossali», dice bene Tettamanzi. Paradossi rivestiti in talare.

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