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Meglio Della Valle che niente

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Della Valle e Alemanno all'interno del Colosseo di Roma

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Il contratto di sponsorizzazione del restauro del Colosseo firmato il 21 gennaio da Diego Della Valle e da Roberto Cecchi  per la realizzazione degli interventi urgenti nelle zone archeologiche di Roma nonché segretario generale del ministero dei Beni culturali, e da Anna Maria Moretti, soprintendente per i beni archeologici della capitale, è finito nel mirino della sinistra giornalistica e del sindacato. Il Fatto Quotidiano, il giornale di Antonio Padellaro e Marco Travaglio, ci ha imbastito una campagna, ed è scesa in campo pure la Uil. Motivo: in cambio dei 25 milioni di euro con i quali finanzia il restauro dell'anfiteatro Flavio – restauro che dovrà essere realizzato in due anni - il proprietario della Tod's ottiene per 15 anni il diritto di sfruttamento in esclusiva di un logo raffigurante il monumento. E, ancora più inaudito, la possibilità di realizzare un centro servizi «ubicato per quattro anni nelle immediate vicinanze del Colosseo», nonché l'ancora più scandaloso diritto ad organizzare visite guidate «per gruppi di persone con modalità da concordarsi con la soprintendenza». Ovviamente fermo restando che il Colosseo resterà accessibile a tutti. Ora ammetterete che il fatto che Della Valle tiri fuori di tasca sua 25 milioni di euro per sponsorizzare il restauro di ciò che in tutto il mondo rappresenta la Capitale è davvero uno scandalo, che a sua volta autorizza i peggiori sospetti. Soprattutto perché notoriamente in Italia e a Roma c'è la fila di imprenditori privati pronti a mettere le mani al portafoglio per pagare il ripristino dei nostri monumenti in condizioni precarie. Siamo anche in grado di rivelare che alla Tod's sono stati riservati trattamenti davvero preferenziali: la Fiat di Sergio Marchionne, per esempio, avrebbe offerto almeno un centinaio di milioni, per non parlare delle fondazioni bancarie, che pure le «finalità culturali» ce l'hanno nello statuto a fronte dei benefici fiscali di cui godono. È poi incredibilmente intollerabile che Della Valle vesta i panni del gladiatore e porti in visita i suoi ospiti partendo addirittura da un centro servizi: finora l'area del Colosseo è stata territorio esclusivo e a caro prezzo di improbabili imitatori di Ben Hur e di Russell Crowe, acquartierati presso chioschi di porchetta. Ma lì, tutto bene. Usciamo dai paradossi e diciamo che ovviamente non abbiamo interessi da spartire con colui che l'ottimo Roberto D'Agostino chiama «lo scarparo a pallini». Anzi: di Della Valle possiamo non condividere certe uscite mediatiche, ma ci sembra indiscutibile che se tutti gli imprenditori del made in Italy fossero come lui il governo non sarebbe stato costretto a varare il decreto antiscalate. Finora, e fino a prova contraria, è andato lui a fare shopping italiano all'estero, dai pullover Ballantyne a Saks, i lussuosi grandi magazzini americani. Così come del resto Prada con Church's, o i Del Vecchio con Brooks Brothers e Ray-Ban. Quanto al Colosseo, sono anni che piangiamo sulla mancanza di fondi per mantenere e restaurare il nostro enorme e ingovernabile patrimonio artistico: e pianti e lamenti hanno pompato un caso internazionale con il governo Berlusconi, fino a portare alle dimissioni del ministro Sandro Bondi. Perché dunque ci scandalizziamo per i 25 milioni di Della Valle? Magari perché bisognava pretendere che lo facesse gratis? Noi che a Roma abbiamo avuto le facciate di palazzi rinascimentali coperte per mesi dalle pubblicità di abbigliamento intimo, e la nuova Ara Pacis di Richard Meier interamente rivestita di rosso Valentino? Alcuni anni fa il Vaticano fece la stessa cosa con il restauro della Cappella Sistina, finanziato dalla Sony. Nonostante che i lavori si siano protratti dal 1980 al '94, l'azienda giapponese ottenne clausole ben più restrittive e durature di quelle della Tod's; compresa l'esclusiva sui diritti video del capolavoro di Michelangelo. Ancora oggi l'intero sistema di alta definizione della radiotelevisione vaticana è stato realizzato dalla Sony, che ha recentemente ottenuto il monopolio del «rilancio dell'immagine televisiva di papa Benedetto XVI, compresa la tecnologia 3D». Ci furono scandali? Alcune critiche riguardarono, caso mai, la tecnica di restauro, che non dipendeva certo dallo sponsor. Così come non dipenderà ovviamente dallo sponsor il restauro del Colosseo, eseguito dalla soprintendenza. Crediamo sia nota a tutti la protesta di attori e lavoratori dello spettacolo per il taglio dei fondi, che sono stati appena ripristinati con addebito sulle tasse della benzina, quindi sulle tasche di tutti noi. Non vogliamo rivangare quella polemica, ma recentemente ci è capitato di vedere in tv uno dei film che nel 2010 è stato riconosciuto di interesse culturale dal ministero allora guidato da Bondi, ottenendo 1,1 milioni di contributi. Si intitola «Genitori & figli – Agitare bene prima dell'uso» ed è una gradevole commedia interpretata da Silvio Orlando, Luciana Litizzetto, Michele Placido e Margherita Buy. Prodotta dalla Filmauro di Aurelio De Laurentiis: non precisamente un poveraccio. Per curiosità siamo andati a sbirciare quali altre pellicole abbiano goduto dei sussidi governativi assieme a «Genitori & figli»: tra le altre «Io loro e Lara» di Carlo Verdone, «Baciami ancora» di Gabriele Muccino, «La prima cosa bella» di Paolo Virzì, «Scusa ma ti voglio sposare» di Federico Moccia. Anche in quei casi è piovuto (denaro pubblico) sul bagnato. Voi direte: ma che c'entra questo con il Colosseo? C'entra: perché l'alternativa a quelle sovvenzioni pagate da noi e da voi, è la sponsorizzazione privata. Con un'altra differenza: i criteri per i quali si finanzia un film invece di un altro sono, come dire, opinabili. Quanto meno discrezionali: con quello che ne segue. Il Colosseo è lì, ben visibile a tutti. Non c'è un romano, anzi non c'è forse nessuno al mondo, che non sappia di che cosa stiamo parlando. E, se vuole, può venire a controllare come vanno le cose. Quindi smettiamola con le facili ironie. Alemanno non è Totò che vendeva la Fontana di Trevi all'americano scemo: abbiamo a che fare con un imprenditore, non un benefattore, che certo si fa i suoi interessi; ma in questo caso, magari, li fa coincidere con quelli di tutti noi.

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