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Perché le quote rosa sono l'esaltazione del mondo maschile

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L'aula del Senato

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E così avverrà. Le quote rosa saranno legge - magari con qualche correttivo rispetto alla proposta originaria, magari con vigenza effettiva tra qualche anno. Ma passeranno, e i consigli d'amministrazione delle società pubbliche o quotate apriranno le porte alle donne. E poco importa se si tratterà, almeno all'inizio di mogli, figlie, segretarie, parenti di altrettanti membri spodestati, perché - sostengono soprattutto nelle banche - di candidate adeguate non ce ne sono (la fondazione Bellisario ha risposto raccogliendo mille e rotti curricula dirigenziali femminili, a dimostrazione che una potenziale classe dirigente femminile esiste: basterà per offuscare lo iato tra un curriculum e un candidato, ben chiaro agli occhi di chiunque abbia almeno una volta fatto esperienza di selezione del personale?). Chi si rallegra delle quote rosa lo fa adducendo fondamentalmente due argomenti, il primo dei quali ha a che fare con il concetto di rappresentanza. Perché le donne conquistino finalmente il posto che loro spetta nel tessuto sociale, si dice, hanno bisogno di essere adeguatamente rappresentate. E da chi, se non da altrettante donne, che meglio di chiunque altro ne conoscono direttamente problemi e istanze? Insomma, per difendere gli interessi femminili bisogna essere femmine a propria volta. Un po' come assumere che per difendere gli interessi degli animali si debba appartenere al regno animale - oppure, per restare a casi meno surreali e a noi più vicini, che per proporsi come difensori della famiglia tradizionale formata da un uomo e una donna, uniti per la vita, si debba a propria volta essere membro di una famiglia del genere, senza avventure, senza sbavature, senza cedimenti. Le donne meglio rappresentate da donne, dunque: basterebbe il lavoro del ministro Sacconi - che, per inciso, lo scorso lunedì ha condotto alla firma di un'intesa tra governo e parti sociali per la conciliazione tra famiglia e lavoro -, a smentire un simile assunto. Come chiunque altro, le donne sono meglio rappresentate e meglio gestite da chi è bravo: da chi sa fare un mestiere, e lo sa fare bene, a prescindere dal suo sesso. E qui veniamo al secondo argomento. In questo caso non c'entra il concetto di rappresentanza, ma quello di merito - e il conseguente riconoscimento. Le donne sono brave come e più degli uomini, si dice, e quindi hanno pari diritto di accedere alle posizioni di responsabilità. Qui il punto debole del ragionamento sta nel concetto di bravura: una bravura ancora tutta misurata su parametri maschili, da dimostrare in un percorso costruito a immagine e somiglianza degli uomini, al quale le donne hanno reclamato e infine, faticosamente ottenuto, accesso. Il risultato di questa che passa per "parità" è sotto i nostri occhi: un esercito di volenterose impiegate, dimentiche della pietas familiare, arruolate a larghe mani da una retorica che promette loro magnifiche sorti e progressive, e intanto ne sfrutta la mera forza lavoro. Non l'intelligenza, non la creatività, non l'acume metaforico; non la capacità di guidare, di educare, di curare, e prima ancora di generare. Quanto varrebbero le donne, se i parametri per misurarle fossero questi? Quanto spesso risulterebbe il famoso soffitto di cristallo - che le quote rosa dovrebbero sfondare - se si tentasse di superarlo con gli strumenti femminili più propri? Non sarà che questo soffitto stesso è il prodotto di un colossale equivoco, che insiste a vedere eguaglianza dove c'è, e non può esserci che differenza? Una differenza originaria, ineluttabile, che invita ogni donna a essere, orgogliosamente, misura di se stessa - così come lo è, e deve esserlo, ogni uomo. La mascolinizzazione del talento femminile, che trova nelle quote rosa il suo coronamento, è compressione, mortificazione; non riconoscimento, premio. È un altro mattone nel muro, sempre più insormontabile, che separa le donne da se stesse.  

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