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Toghe derise dagli antichi

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Mentre il governo si accinge ad affrontare il problema della riforma della giustizia i nostri più gagliardi procuratori di assalto dovrebbero chiedersi che cosa gli antichi greci, e magari anche quelli latini, penserebbero di loro. Ma temo che a questa proposts molti di loro reagirebbero con una smorfia schifata perfettamente appropriata all'idea che il garantismo, e ancor più il rifiuto del giustizialismo, siano scoperte della canaglia berlusconesca. Errore, grave errore. E le meglio toghe giacobine, con tutta la loro cultura giurisprudenziale, avrebbero dovuto scoprire da un pezzo che ad alcune delle meglio teste del mondo antico i magistrati della loro specie avrebbero fatto orrore. Una delle più insigni di quelle menti fu naturalmente il grande Pericle, che nel suo celebre elogio (riportato da Tucidide, della democrazia ateniese dimostrò fra l'altro che anche sul tema sesso, società, giustizia e vita privata un greco del V secolo a.C. poteva essere molto più "avanzato" di tutti quei nostri dotti intellos che non riuscendo a sfasciare il Cavaliere a colpi di elezioni vorrebbero accopparlo a colpi di pettegolezzi giudiziari. Ecco il passo più sorprendente di quel discorso: «Non soltanto nella nostra vita pubblica ma anche in quella privata noi viviamo in piena libertà, ragion per cui, in quel sorvegliarsi vicendevole che si verifica nelle azioni di ogni giorno, noi non ci sentiamo urtati se uno si comporta a proprio piacimento, né gli infliggiamo con il nostro corruccio una molestia che, se non è un castigo vero e proprio, è pur sempre qualcosa di poco gradito». Dalle queste poche righe sembra lecito dedurre che il buon Pericle, in episodi come lo sfruttamento politico del "caso Ruby", avrebbe visto un'intollerabile infamia. Ma per farsi un'idea dell'opinione che un greco qualsiasi di quel tempo si sarebbe fatto di certi nostri giudici conviene passare da Pericle ad Aristofane, e in particolare alla splendida commedia – "I calabroni" – in cui egli si fece beffe, appunto, della furia giustizialista dei sicofanti del suo tempo. In questa pièce, scritta 25 secoli fa, accade che un certo Filocleone, esempio imperituro di paranoia giudiziaria, ritenendo, proprio come certi eroi della giustizia italiana di oggi, che la più nobile pratica umana consistesse nel trascinare ogni giorno qualche cittadino in giudizio, coltivava la lieta ambizione di riuscire ad accusare tutti, magari a costo di processare l'intera città, di corruzione. Giacché nulla lo eccitava come l'idea di inguaiare qualcuno con un avviso di garanzia. Nulla lo esaltava come la protezione dei poteri forti di allora. E nulla lo inorgogliva come le varie blandizie con cui tanti pezzi grossi cercavano di ammansirlo: inchini e baciamani per le strade, suppliche e piagnistei davanti al tribunale, grosse regalie sottobanco, fanciulle offertegli per sollazzarlo dai loro tremebondi genitori e altre analoghe attenzioni. Ecco la strepitosa tirata con cui egli risponde al figlio che deplora la sua brama di processi: «Chi è più felice e beato di me? Chi campa meglio di me? Chi è più temuto di un giudice? Quando la mattina esco di casa, sciami di pezzi grossi m'aspettano davanti ai cancelli del tribunale. E subito, appena m'avvicino, mi stendono la mano tremula, la stessa che ha rubato denaro pubblico. E prosternandosi, con una vocina lagnosa, incominciano a supplicare: «Dottore, vi scongiuro, per carità. Dopotutto anche voi qualche volta avete rubato denaro pubblico. Insomma mi dovete perdonare!». E pensare che quel farabutto non saprebbe nemmeno che esisto se non l'avessi assolto già una volta. Poi, una volta entrato dentro, inghiottita la nausea per tutti quei piagnistei, non faccio niente di quel che ho promesso. E mi accingo ad ascoltare tutti quei disgraziati che mi mandano a raccontare un sacco di fesserie per non farsi denunciare o condannare». Il lungo elogio che Filocleone scodella sui vantaggi della propria attività sicofantesca prosegue così: «Non si può immaginare quanti salamelecchi un giudice può ricevere là dentro. Chi piange miseria aggiungendo altri guai a quelli veri. Chi racconta fandonie. Chi dice barzellette. Qualcuno, per farmi passare la collera, cerca di farmi schiattare a ridere con le sue buffonate. Qualcun altro per impietosirmi si presenta coi figlioletti. E io li sto a sentire. E loro, abbassando la testa, belano come tante pecorelle. E il padre, tremando come una foglia, a nome di quelle creature, mi prega, come se fossi un dio, di assolverlo dall'accusa di malversazione. «Se vi commuove la voce di un agnellino, abbiate pietà di quella di un bambino». E sapendo che mi piacciono le puttanelle, cerca di farmi crollare sotto i singhiozzi di quella troietta di sua figlia. Allora mi addolcisco e incomincio a cedere. Ma mi stavo dimenticando la cosa più dolce: quando torno a casa, tutti mi fanno festa perché pensano ai quattrini che mi sono guadagnato». Il momento più esilarante della commedia è quello in cui il figlio, ormai convinto che il padre sia pazzo, e perciò deciso a porre fine al suo folle attivismo giudiziario, lo rinchiude in casa in compagnia di un cane che egli, per sfogare la sua massima passione, potrà divertirsi a processare per il furto di un pezzo di formaggio. Il "garantistmo", infine, è cosa molto antica, giacché le sue radici affondano nella sapienza giuridica dei legislatori latini dei primi secoli dell'èra cristiana. Non è anzi esagerato sostenere che tutto l'edificio teorico del "garantismo" moderno è racchiuso, come un albero nel proprio seme, in quell'ammirevole motto latino – «in dubio pro reo» – che afferma che nei casi giudiziari dubbi si deve decidere sempre a favore dell'imputato.  

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