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Un presidente senza nobili Fini

Gianfranco Fini

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Non s'era mai visto un presidente della Camera pretendere le dimissioni del presidente del Consiglio, e Fini lo ha fatto. Non era mai accaduto che l'inquilino di Montecitorio si facesse promotore di una crisi extraparlamentare, e Fini lo ha fatto.   Non era mai successo che la terza carica dello Stato, super partes per definizione, dichiarasse defunto il partito più rappresentativo in Parlamento, e Fini ha fatto pure questo. Ci mancava che dileggiasse i deputati e senatori che hanno deciso liberamente di abbandonarlo per completare il profilo di un uomo politico al posto sbagliato. Abbiamo visto anche questo e crediamo che le sorprese non siano finite. Il leader di Fli ci ha abituato a tutto negli ultimi mesi, trascurando quel che ha fatto e ha detto dal 2008 in poi. E ci ha dimostrato come si possa cancellare una reputazione politica ritenuta inossidabile. Fini ha sbagliato tutto da quando ha mollato gli ormeggi dal suo mondo ritenendo di poterne costruire un altro dal nulla, servendosi non delle idee ma delle parole. E queste sono diventate pietre che anche quanti le avevano accolte con generosa disponibilità d'animo, hanno dovuto ammettere che nascondevano il vuoto. È questo ciò che resta della più inconsistente, livida e livorosa esperienza politica degli ultimi decenni. Culminata con l'anatema scagliato contro coloro i quali l'avevano assecondata, rimettendoci molto: prima avventurosi esploratori di strade sconosciute, poi traditori soggiogati dal potere seduttivo e finanziario del Cavaliere. Questa la conclusione di Fini al quale non passa neppure per la mente di aver sopravvalutato la sua esposizione ritenendosi davvero il fondatore di una nuova èra, anticipatore di una «primavera politica», come ha detto del discorso funebre al congresso «fondativo» di Fli. E neppure in queste ore si chiede che cosa non ha funzionato nel suo progetto, ma scarica tutto sui «traditori» e su chi avrebbe aperto la solita borsa contenente i trenta denari. Il livello del conflitto politico è di questo tenore. Non saprei se più grottesco o deprimente. Di sicuro imbarazzante istituzionalmente. Poiché da che mondo e mondo, mai il presidente di un'Assemblea rappresentativa si è permesso di insultare dei parlamentari asseverando in tal modo la richiesta di dimissioni formulata da tanti, anche a lui vicini, fin da quando ha assunto un ruolo politicamente attivo. Nella sua intemerata Fini curiosamente se l'è presa anche con i «gerarchi del Pdl». L'ira gli ha impedito di ricordare che proprio molti quei «gerarchi», provenienti da An e formatisi come lui nel Msi, lo hanno sostenuto per decenni; alcuni hanno contribuito in maniera determinante a spianargli la fulgida carriera fino al piano nobile di Montecitorio, qualche altro, non ritenuto degno di ottenere i gradi di ufficiale superiore, lo ha seguito lealmente sulla soglia della più confusa operazione politica che poteva mettere in piedi. Ma a tutto c'è un limite oltre il quale a nessuno si può chiedere di andare. Soprattutto quando nell'altrove non c'è che il nulla. Cosa consegna Fli a chi volesse impegnarsi nelle sue file? La discontinuità con una storia, il rogo di certe idee, l'abiura di alcuni valori reputati indisponibili? Forse i delegati a Rho si attendevano una qualche risposta a queste domande. Hanno assistito, invece, a guerre intestine scatenate attorno ad organigrammi squilibrati. Un po' poco per annunciare venti di primavera. L'aria è piuttosto quella dello tsunami.  

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