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L'obiettivo dei giudici è il processo politico

Gianfranco Fini

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Gianfranco Fini, mescolando ancora una volta i ruoli di presidente della Camera e di capo-fazione, si aggrappa grottescamente alla Procura di Milano per tentare una rivincita politica su Silvio Berlusconi dopo aver fallito il suo assalto politico e parlamentare il 14 dicembre. Egli si è unito ai vari Bersani, Veltroni e Di Pietro per accusare ieri il presidente del Consiglio, in un comizio a Reggio Calabria, di voler tradurre in una inaccettabile «impunità» il suo forte consenso elettorale. E si è vantato di avergli impedito, quando gli era alleato di governo, la riforma del cosiddetto processo breve ed altre modifiche al sistema giudiziario. Fini ha insomma coperto le forzature commesse dalla Procura milanese nell'affare Ruby. Che sono ormai tante e di tale evidenza, avvertite sotto voce anche nella scomposta opposizione, che il processo giudiziario al Cavaliere è seriamente compromesso. Ma il processo in un'aula di giustizia, per quanto lo perseguano con rito addirittura immediato, sembra non essere mai stato il vero obbiettivo degli inquirenti. Ha prevalso e prevale, come dimostra anche l'ultimo intervento di Fini, un altro processo: quello mediatico e politico, che prescinde dai tre gradi di giudizio contemplati nel codice di procedura penale ed è ovviamente di condanna immediata e definitiva. Oltre a danneggiarne l'immagine, più ancora di quanto avessero potuto o voluto fare con gli altri procedimenti intentati contro di lui in un arco di oltre sedici anni, gli inquirenti di Milano hanno riempito d'indebita zavorra l'operazione politica avviata da Berlusconi per allargare la sua maggioranza parlamentare proprio dopo il fallimento dell'assalto di Fini. Delle varie e non certo casuali forzature compiute dalla Procura di Milano nella offensiva giudiziaria contro il presidente del Consiglo per prostituzione minorile e concussione, e al netto degli errori di comportamento sicuramente commessi dal Cavaliere, mi limito a indicarne una sola con parole né di Berlusconi, né di Niccolò Ghedini e degli altri suoi legali. Voglio ricordare che cosa ha detto in una intervista alla Discussione, una ormai piccola ma storica testata democristiana, Giovanni Pellegrino. Che non è soltanto un noto ed apprezzato avvocato, ma anche un esponente del maggiore partito d'opposizione, già parlamentare e presidente prima della giunta delle elezioni e delle immunità parlamentari del Senato, poi della commissione bicamerale d'inchiesta sulle stragi: un politico insomma che s'intende di leggi, sicuramente più del segretario del suo Pd e dei predecessori. «Personalmente - egli ha osservato parlando della Procura di Milano - non mi sarei andato a ficcare nell'impasse del tribunale dei ministri con la sottile distinzione tra abuso di funzione e abuso di qualità. Avrei rinviato al tribunale dei ministri, che del resto è composto da magistrati». «A volte la prudenza -ha aggiunto- è la migliore delle astuzie. Non si può offrire a uno come Ghedini un assist del genere». Pellegrino ha inoltre rimproverato al capo della Procura milanese, Edmondo Bruti Liberati, di non aver saputo imporre «il principio gerarchico» ai suoi sottoposti. Che in questo brutto affare gli hanno preso forse la mano, sino a smentire la «regolarità» da lui riconosciuta publicamente alla condotta della Questura di Milano, dopo le telefonate di Berlusconi, per l'affidamento dell'allora minorenne Ruby durante quella dannata notte fra il 27 e il 28 maggio 2010. Della concussione, la Procura non avvertì allora neppure l'ombra.

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