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Silvio, Giulio e gli inutili sospetti

Silvio Berlusconi e Giulio Tremonti

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Gli organi dell'antiberlusconismo in servizio permanente effettivo descrivono il Cavaliere intento a mobilitare militarmente ministri e fedelissimi, a muoverli al millimetro come ossequienti pedine di un risiko. Magari fosse così: per il governo, e per Berlusconi stesso. Al contrario, nelle immediate vicinanze del premier, oltre a guardarsi dalla Procura di Milano (e scusate se è poco), sembra si sia deciso di dar vita a una sorta di festival delle chiacchiere: che non risparmia neppure i personaggi di punta del governo. Come Gianni Letta. O Roberto Maroni. O Giulio Tremonti. Come dire: se non hai abbastanza nemici fuori, trovatene altri dentro. Chiacchiere, sospetti. Perché la polizia ed i servizi segreti non si sono accorti delle intercettazioni degne (su questo il Cavaliere ha ragione da vendere) della guerra ad Al-qaeda? Perché – è la risposta che molti lasciano balenare - chi ha la delega sui servizi non ha tenuto le antenne dritte. Mugugni simili erano già stati avanzati un anno fa, all'epoca delle paparazzate di villa Certosa. Ma, allora come ora, il problema non è tanto di chi ha il controllo politico sulla polizia e sugli apparati di sicurezza intorno al capo del governo, che se sono stati con tanta nonchalance spiati da Ilda Boccassini possono esserlo da qualche organizzazione terroristica o potenza ostile. Il problema è al contrario di chi organizza la rete di tutele e di privacy di uno dei leader del G8, quotidianamente ne risponde ed a quel punto, sì, rende conto allo staff politico di eventuali carenze o stranezze. Per fare un esempio: la Casa Bianca in era Clinton è stata teatro di vicende sessuali fin dentro lo Studio Ovale. Ma nessuno ha potuto spiare il presidente: lo scandalo esplose perché Monica Lewinsky fece denuncia dopo aver conservato le prove in freezer. Neppure durante la travagliata presidenza Bush-Cheney, con le dimissioni a ripetizione di generali e consiglieri ed i contrasti profondi sulla guerra in Iraq, la cortina di sicurezza che deve necessariamente circondare i luoghi fisici dell'amministrazione è stata mai violata. Eppure non è venuta meno la democrazia, né l'equilibrio dei poteri che costituisce il pilastro del sistema americano. Andiamo avanti. Nell'entourage berlusconiano c'è poi chi punta l'indice contro Tremonti, perché si dice che da una caduta del Cavaliere avrebbe tutto da guadagnare. Errore grossolano. Il ministro dell'Economia ha certamente le sue ambizioni, ed è un nome più che spendibile per il futuro. Ma ci sembra accorto – e gli altri con lui - da capire che tutta la sua capacità a livello europeo nel destreggiarsi tra la speculazione da una parte e le tentazioni egemoniche della Germania dall'altra, tutto questo non durerebbe un minuto se cadesse il governo o se si andasse ad una fase di caos politico.   Le pagelle delle agenzie di rating e le decisioni di chi muove il denaro di qua e di là nel mondo si sono sempre basate su due elementi: la stabilità politica e la capacità di mantenere le decisioni di finanza pubblica. Tutto il resto, feste di Arcore comprese, non conta. Da lungo tempo non è più come quando il pentapartito chiamava la buonanima di Giovanni Goria perché firmasse una Finanziaria impopolare, «fuori dai partiti», e la stessa cosa faceva la sinistra con Giuliano Amato. Oggi un premier ed il suo ministro del Tesoro hanno una responsabilità unica e condivisa, e quella è sotto il giudizio dei mercati e dei governi con i quali ci misuriamo senza sconti. L'economia, visto che qui siamo inevitabilmente andati a planare, vede l'Italia nel mezzo dell'ennesima strettoia. Gli organismi finanziari ci rinnovano fiducia – la merce più pregiata che oggi ci sia – ma al tempo stesso i sei governi europei con rating di tripla A tengono riunioni a sé stanti. Un fatto solo tecnico o anche di sostanza, che possa preludere ad una meno efficace difesa dei nostri interessi? Non solo. La corsa per la presidenza della Bce è ormai aperta.   Berlusconi ha avuto il merito di non aver negato che una candidatura di Mario Draghi esiste ed onora il nostro Paese: ma per sostenerla c'è bisogno di stabilità, di continuità, di coesione e soprattutto di lavorare a livello politico e tecnico sull'obiettivo. Diversamente un ennesimo patto a due tra Berlino e Parigi (i francesi sosterrebbero Axel Weber in cambio della guida del potente comitato economico dell'Eurotower) sarebbe praticamente inevitabile. Non è certo una partita da vincere ad ogni costo, ma da giocare come si deve sì. Ancora. Centocinquanta poltrone di vertice di aziende pubbliche vanno in scadenza o rinnovo nei prossimi mesi: Eni, Enel, Finmeccanica, Poste, Terna, per dirne alcune. Sono tutti gruppi e settori strategici, come ben ci insegnano proprio i francesi maestri dei campioni nazionali. Ma a parte la bilancia commerciale - che pure è sempre più fattore decisivo - se la nostra grande industria ha qualche chance di uscire dalla crisi e soprattutto di investire in innovazione, non si possono sbagliare queste scelte. La Fiat, infine. L'onda di Marchionne si è rivelata più lunga e più forte del previsto. Per ora sembra essersi abbattuta, forse giustamente, soprattutto sulla Confindustria. Gli effetti li vedremo nell'imminente campagna di successione ad Emma Marcegaglia. Fatti loro, degli imprenditori? Certo, è anche così. Ma lasciar cadere, trascurare, non capire in che cosa si tradurrà politicamente e socialmente la rivoluzione del Lingotto, sarebbe più di un peccato: sarebbe una gigantesca e forse irripetibile occasione sprecata.

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