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L'aggettivo di troppo del Colle

Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano

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C'è un aggettivo di troppo, e comunque di ambigua interpretazione, nella nota con la quale il presidente della Repubblica ha voluto unirsi alle richieste delle opposizioni  e dei giornaloni di un rapido sviluppo della nuova vicenda giudiziaria che ha investito il presidente del Consiglio. Egli ha espresso l'auspicio -credo di suo pugno, conoscendone lo stile- che «nelle previste sedi giudiziarie si proceda al più presto ad una compiuta verifica delle risultanze investigative» a carico di Silvio Berlusconi, accusato dalla Procura di Milano addirittura di concussione e di utilizzo della prostituzione minorile. Previste in che senso? Ecco l'aggettivo che non va. Qui di previsto negli atti giudiziari c'è solo uno dei tre giorni -dal 22 al 24 gennaio- che la Procura milanese ha indicato al Cavaliere per «comparire», cioè per farsi interrogare dagli inquirenti decisi a chiedere il giudizio immediato a suo carico. Ma non è per niente certo e assodato che sia la magistratura milanese quella competente ad occuparsi anche di questa brutta storia che riguarda il presidente del Consiglio. Il capo dello Stato avrebbe forse fatto meglio a non usare alcun aggettivo per non dare l'impressione di una propensione, che non gli spetta, a favore della competenza ambrosiana. Sulla quale altri dovranno decidere se sia quella giusta, o dovuta, per processare e giudicare Berlusconi delle nuove e «gravi ipotesi di reato», come Giorgio Napolitano le ha giustamente definite.   Tra la Procura della Repubblica di Milano e il Cavaliere c'è un elenco troppo lungo e controverso di conflitti perché non si possa ragionevolmente scorgere il filo di un pregiudizio della prima nei riguardi del secondo. Non dimentichiamo, fra l'altro, il monito levatosi nei lontani anni delle indagini «mani pulite» dall'allora capo della Procura milanese, Francesco Saverio Borrelli, contro chi si fosse lasciato tentare dalla politica pur avendo qualcosa di cui poter essere chiamato a rispondere dall'autorità giudiziaria. Che allora faceva presto a sbattere ogni giorno in prima pagina con un semplice avviso di garanzia i mostri della corruzione politica. Ne nacquero in quei tempi a centinaia, anzi a migliaia, molti finendo condannati, alcuni addirittura suicidi per disperazione prima del processo, ma molti di più anche assolti, qualche volta senza neppure essere rinviati a giudizio, comunque sputtanati. Fra i destinatari di quello strano, inquietante monito di Borrelli c'era pure Berlusconi, per quanto non menzionato esplicitamente. C'era perché, prima ancora di scendere in politica, come gli stessi magistrati e i loro esegeti incautamente hanno spesso ricordato volendo contestare alcune delle sue proteste, il Cavaliere si era già procurato il non benevolo interesse della Procura milanese con tanto di indagini e perquisizioni nelle sue aziende. L'imputato eccellente della Procura ambrosiana di quegli anni era Bettino Craxi, di cui il Cavaliere era generalmente considerato non tanto e non solo l'amico, quanto il protettore, il complice, persino il socio. Quando poi ne divenne in qualche modo l'erede politico, succedendogli come leader della lotta ad una certa sinistra forcaiola e velleitaria, sconfiggendola elettoralmente e impedendole di raccogliere i frutti di quella che fu dipinta come una rivoluzione giudiziaria, il Cavaliere divenne il nuovo nemico numero uno da abbattere. Siamo forse alla partita finale di un conflitto troppo lungo per non essere ciò che appare, e non si può accettare: una guerra odiosa e spietata.    

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