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È successo tutto Non è successo niente

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E adesso cosa succede? Tutto e niente, cari lettori de Il Tempo. Siamo di fronte al dritto e al rovescio, alla fiammata del corto-circuito tra politica e giustizia che ha impedito a questo Paese di riprendere il cammino delle riforme, di avere un sistema politico non dico «normale», ma appena appena serio e in grado di affrontare le sfide che ci mette davanti agli occhi il mondo contemporaneo. Sollevando a ogni piè sospinto «l'anomalia» Berlusconi - un'anomalia stravotata dagli italiani, da quel corpo elettorale che, en passant, è un organo costituzionale - il partito della conservazione ha maciullato un principio cardine della democrazia: il primato della politica e della sovranità popolare. La decisione di ieri è da Corte dei miracoli perché riesce a bocciare il legittimo impedimento parzialmente, ma certifica che l'agenda del presidente del Consiglio è sottoposta a uno scrutinio preventivo della magistratura. Il problema non è più quello di «processare Berlusconi» come dicono con pomposa brama gli avversari politici del Cav. Siamo di fronte a un ribaltamento degli equilibri tra poteri, per cui il Parlamento non è più l'organo legislativo, ma una cameretta intermedia il cui lavoro è sottoposto ai diktat del Consiglio Superiore della Magistratura, dei tribunali di ogni ordine e grado (pensate a cosa combinano i Tar) e di una Corte Costituzionale che di volta in volta fa il mestiere improprio di riscrivere le leggi, come un sarto che, cucendo qua e là, finisce per confezionarti un altro vestito. Siamo nel pieno di una rappresentazione colma di personaggi che svolazzano nel caos e recitano un copione dove le tre streghe di Macbeth canterebbero a squarciagola e con iperbolica allegria: «Il bello è brutto e il brutto è bello:/Fra nebbie e fumo corri a rovello». Nebbie e fumo in questo scenario non mancano di certo. Proviamo a vederci chiaro e immaginare le prossime mosse sulla scacchiera. Il governo non andrà in crisi per la sentenza della Consulta, questo era chiarissimo e la stessa natura della decisione, la parziale illegittimità, è un escamotage della Corte per evitare il patatrac immediato. Ma è chiaro che nella sostanza il verdetto è un pasticcio giuridico-politico che influirà sull'azione del governo. L'operazione di allargamento potrebbe risultare un po' più lunga, ma in ogni caso il Cavaliere continuerà a stare in sella finché avrà i numeri e nel frattempo dovrà prendere una decisione strategica: poco tempo fa ha annunciato di voler partecipare ai dibattimenti che lo riguardano, non è la prima volta che questo accade, ma una scelta simile presuppone una strategia forte sul piano della comunicazione. La storia insegna che i processi hanno rafforzato il presidente del Consiglio e se dovesse materializzarsi uno scenario da elezioni anticipate è molto probabile che Berlusconi colga la sfida per mettere carburante nel serbatoio della macchina elettorale. Chi pensa che i tre processi nei quali Berlusconi è coinvolto a vario titolo - Mills, diritti tv Mediaset, Mediatrade - saranno l'arma finale contro il premier si sbaglia. In realtà rischiano di essere la sua polizza assicurativa per restare o tornare a Palazzo Chigi. Sul tavolo di Berlusconi però c'è un'altra opzione, un'arma micidiale che la stessa Corte ha messo in mano al premier: il conflitto permanente. Il Cav dovrà sottoporre la sua agenda di appuntamenti al vaglio della magistratura. Al di là dell'assurdità evidente di tale prassi, bisogna porsi una domanda: cosa succede se i giudici convocano Berlusconi in aula nonostante tutto? Succede che se la presidenza del Consiglio ravvisa un comportamento abnorme da parte della magistratura, può sollevare un conflitto presso la stessa Corte Costituzionale. È una mossa che potrà essere fatta ogni volta che gli avvocati di Berlusconi vedranno una violazione dei diritti connessi alla funzione di governo. A quel punto è facile immaginare una pioggia di ricorsi (e di polemiche roventi) che metteranno il governo e la magistratura su un piano di scontro totale. La decisione fintamente pilatesca della Consulta apre dunque la strada a una stagione di conflitto ancor più aspro di quanto sia finora accaduto. Siamo di fronte all'ennesimo capitolo di una storia in cui tutti i tentativi fatti per riequilibrare il rapporto tra politica e giustizia sono falliti. Molte soluzioni adottate erano francamente insufficienti e sbagliate, ma a onor del vero ogni idea di riforma profonda e incisiva della giustizia è finita contro il muro di titanio della magistratura militante e della politica subalterna alle toghe. Il cortocircuito nasce con Mani Pulite. Quando nel 1994 il Parlamento decise di rinunciare all'immunità prevista dall'articolo 68 della Costituzione, era difficile immaginare una simile durata del conflitto tra toghe e legislatore, si pensava che prima o poi il treno della magistratura avrebbe ripreso a viaggiare sui binari istituzionali. Fu un grave errore. Da quel momento i fili ad alta tensione che regolano il rapporto tra i poteri dello Stato e l'ordine giudiziario sono saltati. Superata la prova della «sfiducia finiana» il 14 dicembre scorso, ora sul cammino di Berlusconi si presenta il petardone della Consulta. Non una bomba ad alto potenziale, ma un ordigno che comunque fa rumore e induce il partito dei ribaltonisti a sperare ancora nella manovra di Palazzo. Con un altro scenario tutto sarebbe possibile, ma con questa opposizione priva di coesione e sostanza politica e un Pd ridotto allo stremo, Berlusconi può tranquillamente dire «io speriamo che me la cavo» perché in fondo siamo in Italia ed è successo tutto, ma non è successo niente.  

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