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Editori e giornalisti L'alleanza per rinnovare

Carlo De Benedetti

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Ci sono due profezie, molto in voga a partire da questo inizio di millennio, che ho sempre ritenuto oscene. Che in pochi anni sarebbero spariti i giornali di carta e che per fare informazione i giornalisti non fossero poi più così necessari. Erano sciocchezze. E mi sembra che il tempo mi stia pian piano dando ragione. Il direttore del Financial Times, Lionel Barber, nel numero di fine anno, ha individuato tra le evidenze principali del 2010 il fatto che l'allarme «sulla morte dei quotidiani è stato di molto esagerato». L'Economist della settimana scorsa citava Evgeny Lebedev, co-owner dell'Independent e dell'Evening standard, che ha affermato: «People are hailing the death of newspapers, but if you go into the tube you'll see almost everybody is reading one». E Lebedev, oltre ad essere un ex agente del Kgb, è anche colui che ad ottobre ha lanciato I, il primo nuovo quotidiano su carta nazionale inglese dal 1986. Non uno qualunque insomma. Nonostante le masochistiche previsioni di Arthur Sulzberger, editore del New York Times, che ha affermato di non escludere la scomparsa del suo giornale dalle edicole già nel 2013, i giornali non moriranno. Non moriranno, ma non stanno per nulla bene. Per nulla bene, questo deve essere chiaro a tutti. Su questo è importante avere tutti la stessa percezione. Altrimenti si fanno errori che possono essere esiziali, difendendo posizioni di vantaggio, privilegi, o semplicemente abitudini e consuetudini legate a un mondo che non c'è più. La situazione dei giornali, e mi riferisco in particolare ai quotidiani cartacei, è certamente difficile. * Più giovani li stanno abbandonando in favore di Internet e della televisione; * La diffusione nel 2009 è scesa sotto i 5 milioni di copie giornaliere, ai livelli cioè del 1939, quando l'Italia era un paese prevalentemente rurale; * Gli investimenti pubblicitari (quotidiani 2009) sono calati del 16 per cento, portando al 40% il calo del fatturato pubblicitario dal 2000 al 2009; * I ricavi complessivi dei quotidiani nell'ultimo decennio sono diminuiti, al netto dell'inflazione, del 20%. Questo è il quadro. Come se ne esce? Nessuno ha la ricetta miracolosa che possa salvare tutto e tutti. Me se andiamo in giro per il mondo apprendiamo di tanti casi di successo che possono insegnarci molto. Casi diversi, che ci indicano a volte strade divergenti, anche opposte tra loro. Ma sempre, in quelle realtà di successo, c'è una componente fondamentale: l'innovazione. Innovare, innovare, innovare. Non c'è altra strada. È il mercato dei giornali inglese, il più vivace in questo ultimo decennio con le sue nove testate nazionali che vendono più di 200mila copie, a dare gli esempi più stimolanti. Con i Lebedev, per esempio, che oltre a lanciare con successo I a soli 20 pence, hanno anche trasformato con successo l'Evening Standard's in un free che oggi ha una circolazione di 700mila copie. Con i giornali del gruppo News Corporation, tra cui il Times, che stanno sperimentando con successo la formula a pagamento su internet, creando una comunità cui poi vengono offerti una serie di servizi a pagamento, dai biglietti per il teatro, alle applicazioni iPad. E ancora: con la scelta opposta del Daily mail, che con il suo sito totalmente gratuito è diventato il più visitato al mondo dopo il New York Times, riuscendo a raccogliere grandi ricavi in pubblicità, e rafforzando al contempo le vendite del giornale cartaceo. Il Financial Times stesso ha stupito il mondo tornando a generare utili non solo attraverso un aumento del costo delle copie e degli abbonamenti internet che inizialmente sembrava folle (tra due e tre volte), ma anche investendo decisamente sull'edizione on-line e introducendo un mix di paywalls. Nell'ultimo anno i ricavi di Ft dagli abbonamenti on-line e dalla pubblicità digitale sono stati pari a 1/5 del totale, già nel 2012 si stima che passeranno a 1/3. Innovazione, dunque. Al di là delle singole scelte, oggi chi cambia vince, chi si ferma è perduto. Chi si ferma tra gli editori e chi si ferma tra i giornalisti. Chi difende l'esistente ha già perso. Vi ricordate le feroci trattative quando si trattò di introdurre il computer nelle redazioni? Erano solo 30 anni fa, ora sembra preistoria. Abbiamo imparato a lavorare ai computer e in un attimo è arrivata internet, abbiamo imparato a fare informazione su internet e sono arrivati i telefonini e gli sms, poi abbiamo dovuto porci il problema di come fare ad essere presenti su facebook e ancora su twitter. Quindi l'iPhone e ora l'iPad, che ci costringe a cambiare ancora, ma che offre anche ai giornali cartacei una straordinaria ancora di salvezza con la sua capacità di diffusione a basso costo. Tutto in un'accelerazione temporale mostruosa. Prima si cambiava il modo di fare informazione ogni 50 anni, poi dieci, oggi i modelli di business ci dicono che ogni due anni nuove tecnologie e nuovi strumenti impongono nuove modalità nell'offerta dell'informazione. Perciò chi si attarda è perduto. E meglio stanno facendo le società editrici di quotidiani e periodici che si sono ristrutturate nel corso degli ultimi due anni adattando l'organizzazione aziendale e i relativi costi a ricavi, in particolare pubblicitari, significativamente ridimensionati. Ma non solo: un innovatore timido, che si fa condizionare da chi frena, perderà ugualmente. Bisognerà certamente dialogare il più possibile, nel tentativo di convincere tutti della necessità di cambiare, ma poi bisognerà cominciare a correre. E se qualcuno frenerà, bisognerà spingere più forte sulle gambe per portarsi tutti dietro. Solo una cosa non si potrà fare e non faremo: fermarci. Questo vale per gli editori e vale per i giornalisti. I conservatori ci sono da una parte e dall'altra. E da una parte e dall'altra ci sono gli innovatori. Io credo in una intelligente alleanza tra questi ultimi. Perché è lavorando insieme che si potrà uscire dalla crisi trovando nuove strade. Gli editori si trovano confrontati a nuove necessità di investimento, per l'acquisizione di competenze, per lo sviluppo dei prodotti e per la loro promozione. I giornalisti devono capire che anche le regole del gioco devono evolvere, tendendo ad incrementare la produttività del loro lavoro. In primo luogo devono accettare che le politiche di rigore messe in atto dalle aziende debbano divenire un modus operandi, e non costituiscono una parentesi legata a una fase di crisi particolarmente acuta quale quella vissuta nel 2009. In secondo luogo, devono fare prova di flessibilità professionale nella consapevolezza che il loro mestiere deve progressivamente, ma rapidamente, adattarsi all'esigenza di lavorare con modalità, tempi e strumenti anche diversi, in funzione dell'evoluzione dei prodotti che comporterà inevitabilmente una maggiore articolazione e complessità. E qui vengo alla seconda profezia che citavo all'inizio: i giornalisti non serviranno più. Niente di più falso. Probabilmente, non lo nego, ci sarà pure stato qualche editore che ha potuto pensare, e tutt'ora pensa, di poter fare a meno dei giornalisti. In fondo - quante volte lo abbiamo sentito ripetere - i giornalisti sono vanitosi e rompiballe, sono viziati, magari abituati a un tenore di vita alto, in molti casi devono mantenere più famiglie. Perché allora non sostituirli con onesti tagliatori-copiatori-incollatori, se non con algoritmi in grado di prelevare informazioni su internet e indicizzarle sul modello di Google? Non esiste. Niente è più sbagliato di questo modo di ragionare. E provo a spiegare perché. Innanzitutto perché l'innovazione si fa lavorando con chi conosce bene il mestiere e il mondo, con chi è capace di visione e riflessione, non con uomini-macchina che tagliano e incollano notizie come alla catena di montaggio della nuova 500. Ma soprattutto perché io sono convinto che le imprese editoriali si salveranno se, oltre a innovare, sapranno anche mettere in primo piano la qualità. E non è una di quelle affermazioni vuote di chi non sa in realtà dove portare il proprio modello produttivo. Credo, infatti, e non da oggi, che il futuro prossimo di gruppi come quello che io presiedo consisterà essenzialmente nell'offrire ai propri lettori un quotidiano (cartaceo o diffuso tramite iPad) fatto di approfondimenti, idee, analisi, storie, interpretazione, tale da spiegare le notizie al proprio pubblico e proporre anche una visione della realtà in cui riconoscersi. E qui la qualità, evidentemente, va da sé. Eppoi un'informazione on-line fatta di due componenti: 1. Le notizie, che dovranno essere presentate non solo rapidamente, ma anche con grande affidabilità, in modo da potersi distinguere dalla marmellata informativa non verificata che passa oggi sulla rete; 2. Gli approfondimenti e le analisi che potranno essere vendute attraverso abbonamenti e micropagamenti. Anche in questo caso, quello di Internet, la qualità dell'informazione sarà dunque un elemento essenziale. E sarà essenziale il ruolo del giornalista, insieme con quello dell'editore. Essenziale per vendere i nostri prodotti, ma anche per qualcosa di molto più importante: per la qualità della democrazia. Permettetemi di riflettere brevemente su questo punto mentre mi avvio a chiudere il mio intervento. Non è un caso se i più acuti analisti della democrazia e delle sue forme abbiano dedicato, negli ultimi decenni, grande spazio nelle loro riflessioni proprio al tema dell'informazione ai tempi di Internet. E l'hanno fatto in una chiave molto problematica. Senza dubbio quanto più l'informazione, con le nuove tecnologie, potrà viaggiare velocemente e connettere il più gran numero di persone, tanto più la qualità delle nostre democrazie potrà essere migliore. Al tempo in cui producevo hardware, computer ma anche fax, ricordo un articolo, uscito in quegli anni non so su quale giornale, che era titolato: «Il fax vi renderà liberi». Non credo c'entrasse il mio ufficio stampa. Credo sia piuttosto la naturale tendenza dei nostri giornali all'iperbole. E quel titolo oltre ad essere iperbolico era indubbiamente anche un po' comico. Ma coglieva, tuttavia, una parte di verità. Una verità che con internet è amplificata: la rete è senza dubbio uno straordinario strumento di informazione, di libertà e in ultima istanza di democrazia. Ma con le opportunità, ci sono rischi, che non vanno né ignorati né sottovalutati. Uno che di democrazia se ne intende, il compianto Ralf Dahrendorf, ha scritto pagine importanti per sottolineare i vantaggi dell'allargamento della discussione pubblica attraverso Internet, ma ne anche evidenziato il pericolo di qualunquismo e populismo. In tempi molto più recenti il guru della rete Jaron Lanier ha lanciato, in un libro importante (You are not a gadget) l'allarme sulle nostre democrazie minacciate, perché «sul web ha cominciato a viaggiare un mondo anonimo, dove il caos sommerge ogni pensiero chiaro e distinto e dove nella velocità avanza solo l'impoverimento culturale». La verità è che il dibattito pubblico, come avvertiva Dahrendorf, «ha bisogno di luoghi in cui venga condotto in maniera organizzata e meditata». Eccolo allora il ruolo fondamentale dei giornalisti e delle grandi imprese editoriali, che gli entusiasti dell'open source hanno condannato alla scomparsa prima del tempo. Partendo da un fatto, che scorre nudo su internet, il bravo giornalista, il sito affidabile, il giornale lo organizza restituendo al lettore un paesaggio complessivo di comprensione e di riferimento. Crea quindi un vero e proprio sistema informativo che offre al cittadino-lettore la possibilità di farsi una mappa della vicenda, che lo porterà attraverso la lettura ad un autonomo e compiuto giudizio finale. Questo passaggio è lo scarto tra conoscere e sapere, tra essere informati ed essere consapevoli, tra essere popolo bue e cittadini. Nell'epoca dell'informazione su internet, dunque, c'è ancora un grande bisogno di bravi giornalisti e bravi editori. Tocca a noi, a noi e a voi, dimostrare di saper cambiare, non solo per difendere e rilanciare i nostri business e i nostri lavori, ma per continuare ad assolvere al nostro compito di sempre: (lo dico senza retorica) quello di piccole sentinelle della democrazia.

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