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Corte Costituzionale "bizzarria" per Togliatti

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Durante la discussione generale sul progetto di Costituzione, Palmiro Togliatti parlò della istituenda Corte Costituzionale  come di una «bizzarria», come di un «organo che non si sa cosa sia e grazie alla istituzione del quale degli illustri cittadini verrebbero a essere collocati al di sopra di tutte le assemblee e di tutto il sistema del parlamento e della democrazia, per essere giudici». Le parole del leader comunista esprimevano la profonda diffidenza sua e del suo partito per un organo, pensato come tecnico e svincolato dalla politica, che essi temevano potesse diventare uno strumento in grado di condizionare o frenare l'operato del Parlamento. Alla base di questa diffidenza c'era l'idea che si dovessero rafforzare i caratteri «giacobini» della Costituzione. Il che spiega, per esempio, l'opposizione dei comunisti alla proposta di Giovanni Leone di escludere dal diritto di eleggibilità alla Corte quei cittadini che avevano ricoperto o ricoprivano cariche politiche in quanto questa situazione avrebbe potuto limitarne la serenità di giudizio. Proprio uno dei maggiori costituenti comunisti, Renzo Laconi, replicò che sarebbe stato assurdo discriminare gli uomini in due categorie in modo tale che «da una parte siano coloro che militano nella politica e dall'altra coloro che non vi militano». D'altro canto, anche un esponente comunista di rilievo come Fausto Gullo sostenne la necessità che la Corte fosse, persino sotto il profilo della sua composizione, «un organo eminentemente politico» capace di interpretare la temperie e le tensioni politiche presenti nel Paese nella presunzione che la legge non sia affatto qualcosa di «statico e di fisso» ma abbia, «specialmente dal punto di vista politico», una sua vita e un suo dinamismo. Il richiamo alle discussioni che, all'epoca della Costituente, riguardarono il carattere, la composizione e le funzioni della futura Corte Costituzionale è opportuno, oggi, alla vigilia della sua pronuncia sulla legge sul «legittimo impedimento». È opportuno, questo richiamo, perché quel dibattito fa intendere come il problema della «politicità» della Corte Costituzionale abbia accompagnato la nascita di quest'organo e la sua stessa storia. In fondo, l'istituzione della Corte, avvenuta nella seconda metà degli anni cinquanta, fu il risultato di una scelta tutta «politica»: l'attuazione del dettato costituzionale - il discorso vale, ovviamente, anche per altri istituti come per esempio il Csm - fu infatti lenta, tardiva e incerta. Si realizzò solo dopo che la fine del centrismo degasperiano ebbe portato una modifica degli equilibri politici e avviato la stagione della cosiddetta «partitocrazia». È più che comprensibile il fatto che la Corte Costituzionale sia, in realtà, per la sua composizione, un organo politico le cui decisioni, o sentenze, riflettono gli equilibri politici dei suoi componenti. Le indiscrezioni e i rumors che filtrano dalle ovattate sale della Consulta sul numero e persino sui nomi dei giudici che sarebbero favorevoli o contrari al ricorso sulla costituzionalità della legge sul legittimo impedimento sono una precisa indicazione del peso che la politica militante finisce per avere sulle decisioni della Corte. La quale - lo si ricorda per inciso - sul cosiddetto Lodo Alfano giunse persino (e poco contano di fronte alla realtà dei fatti le causidiche negazioni) a contraddire una sua precedente deliberazione. Non c'è affatto da scandalizzarsi se Berlusconi (o chi per lui) sostiene che la Corte attuale ha una maggioranza di sinistra: è la pura e semplice verità. Anche la sentenza sulla legge relativa al legittimo impedimento che verrà diffusa oggi - quale che sia - è una sentenza «politica». Lo è non solo e non tanto per le conseguenze che essa potrà determinare sulla politica italiana e per le polemiche che potrà innestare, contribuendo a innalzare o a raffreddare la temperatura politica del Paese. Lo è per il fatto stesso che i giudici costituzionali abbiano accettato di pronunciarsi sulle tre ordinanze trasmesse dal Tribunale di Milano in ordine alla sospensione dei processi Berlusconi-Mills, Mediaset e Mediatrade. Da una lettura attenta delle tre ordinanze, infatti, si nota che tutte chiedono alla Corte Costituzionale di dichiarare l'incostituzionalità della legge per una presunta violazione dell'articolo 138 della Costituzione. Questo articolo di tipo «procedurale», come è noto, individua e disciplina il complesso iter di formazione delle leggi costituzionali. È intuitivo che, prima di poterne invocare la violazione, sarebbe necessario appurare se la legge contestata abbia natura costituzionale, se - in altre parole - essa abbia leso un qualche principio della Costituzione. L'invocazione dell'articolo 138, così come è stata fatta, significa, in una battuta, confondere, la medicina con la malattia perché quell'articolo ha anche, evidentemente, il carattere di sanare un eventuale vizio di costituzionalità. Un vizio che deve però essere riconosciuto. È pur vero che, delle tre ordinanze, una contesta anche la violazione dell'articolo 3 della Costituzione, quello relativo all'uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge, ma lo fa senza addurre motivazioni. Stando così le cose, i ricorsi del Tribunale di Milano avrebbero dovuto essere dichiarati «irricevibili».   È impensabile che i giudici della Corte Costituzionale non se ne siano resi conto, non abbiano rilevato un fatto del genere. È più probabile che essi, di fronte alle prevedibili reazioni mediatiche di una dichiarazione di «irricevibilità» che suonerebbe come una censura ai magistrati estensori dei ricorsi, abbiano preferito, al pari degli struzzi, mettere la testa sotto la sabbia. O, peggio, abbiano voluto effettuare una scelta interventista ben precisa. In ogni caso, questa vicenda, al di là del caso specifico relativo alla legge sul legittimo impedimento, richiama l'attenzione sulla necessità che nell'agenda delle riforme istituzionali ci sia un posto anche per un ripensamento della natura, delle funzioni, della composizione della Corte Costituzionale.

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