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Quelle tre storie di dalemiana ingiustizia

Berlusconi insieme con Rutelli

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Si rischia molto a prendere sul serio Massimo D'Alema quando in privato si lascia andare a giudizi molto critici sui magistrati, oltre ai soliti giornalisti, o agli altrettanto soliti compagni di partito che non ne condividono analisi, proposte e umori. Ne sanno qualcosa, in tema di giustizia, l'ex ambasciatore americano a Roma Ronald Spogli, Silvio Berlusconi e l'ex Guardasigilli Filippo Mancuso. A Spogli è accaduto in questi giorni di sentirsi dare praticamente dello sprovveduto dal presidente, ora, del comitato parlamentare di controllo dei servizi segreti per la sicurezza della Repubblica. Che ha smentito di avergli confidato nell'estate del 2008, commentando storie di intercettazioni finite sui giornali e vicende giudiziarie del Cavaliere, da poco tornato allora alla guida del governo, che in Italia «la magistratura è la più grave minaccia allo Stato». L'ambasciatore degli Stati Uniti in servizio a Roma in quel momento ne rimase tanto impressionato, trattandosi peraltro del giudizio di un ex presidente del Consiglio ed ex ministro degli Esteri, da scrivere il 3 luglio al Dipartimento di Stato. Il dispaccio, ovviamente riservato, è di quelli rubati elettronicamente da Wikileaks. Ed è giunto tramite lo spagnolo «El Pais» la notte della scorsa vigilia di Natale ai giornali italiani, non tutti solerti come il nostro «Tempo» a riferirne in prima pagina. Sono stato «frainteso», ha subito reagito a Roma l'interessato. A Berlusconi accadde nel 1997 di fidarsi anche delle indiscrezioni che già circolavano sulla diffidenza dell'allora segretario del Pds-ex Pci D'Alema nei riguardi di certa magistratura per sostenerne in modo decisivo, in dissenso da Gianfranco Fini, la candidatura a presidente della commissione bicamerale per le riforme istituzionali. Nelle quali non a caso fu poi inserita quella della giustizia fra la sorpresa e le proteste delle toghe. L'allora sostituto procuratore della Repubblica di Milano Gherardo Colombo arrivò a parlare del Parlamento come di un «figlio del ricatto». E si rasserenò solo quando la commissione naufragò per la decisione presa da Berlusconi di staccarle la spina, il 27 maggio 1998, visto che D'Alema non riusciva più a districarsi tra le incertezze e le contraddizioni che aveva lasciato crescere su molti dei temi in discussione. A Filippo Mancuso, già procuratore generale della Corte d'Appello di Roma, era invece accaduto nel 1994 di fidarsi del giudizio negativo espresso nei riguardi di certa magistratura da D'Alema durante una cena a casa del comune amico Alfio Marchini, a poche centinaia di metri da Montecitorio. In quell'occasione si era finito per parlare anche della onnipotente Procura ambrosiana della Repubblica, e delle sue traumatiche indagini sul finanziamento illegale dei partiti. Divenuto l'11 gennaio 1995 ministro della Giustizia nel governo di Lamberto Dini per volontà diretta dell'allora capo dello Stato Oscar Luigi Scalfaro, il povero Mancuso ebbe l'ingenuità, da lui stesso confessatami qualche anno dopo, di sopravvalutare quell'insofferenza conviviale di D'Alema. Del quale gli era rimasto impresso, fra l'altro, un pugno sferrato sul tavolo, con quelle nocche già leggendarie fra i suoi compagni di partito. Il Guardasigilli si decise pertanto a disporre un bel po' d'ispezioni ministeriali nel tribunale di Milano. Ma perse di un colpo la fiducia di Scalfaro, di Dini e pure di D'Alema, affrettatisi tutti a solidarizzare con le rumorose proteste degli uffici giudiziari e dei tanti giornali, quasi tutti, che ne avevano cantato le gesta nella liquidazione della cosiddetta Prima Repubblica. Poiché Mancuso, già ostinato di carattere, da quelle proteste non si lasciò per nulla intimidire, trovandovi anzi altre buone ragioni per insistere, la maggioranza di governo, comprensiva naturalmente del partito di D'Alema, lo contestò con una mozione di sfiducia personale. Che il Senato approvò il 19 ottobre 1995 con 173 voti favorevoli, tre contrari e 8 astensioni. I parlamentari dell'opposizione di centrodestra non parteciparono al voto in segno di protesta contro il merito e le procedure dell'operazione. Allo sfortunato Mancuso, che avrebbe poi avuto un'avventura politica e parlamentare di sei anni in Forza Italia, dal 1996 al 2002, incorrendo purtroppo in altre delusioni, non restò che sollevare conflitto di competenza davanti alla Corte Costituzionale. Ma il ricorso fu naturalmente respinto, con grande sollievo di Scalfaro, di D'Alema e di tutti i magistrati che si erano sentiti minacciati dalle sue ispezioni.

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