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Il realismo della Gelmini

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Il ministro Mariastella Gelmini

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Questa volta sembra proprio che la riforma dell'università sia in dirittura d'arrivo. È una buona notizia per il governo. Ma è anche, e soprattutto, una buona notizia per il paese tutto, oltre che, naturalmente, per il mondo dell'università. La riforma Gelmini non è certo la migliore riforma possibile: chi proviene da una cultura e da una militanza liberale avrebbe, sulla scia della lezione di Luigi Einaudi, preferito affrontare i problemi dell'università abolendo, prioritariamente, il valore legale dei titoli di studio. Tuttavia, detto questo, la riforma Gelmini è la migliore delle riforme che, nella situazione attuale, poteva essere messa in cantiere. Nella storia dell'Italia repubblicana le riforme universitarie si sono sempre risolte in disastri. All'inizio degli anni Ottanta la riforma Valitutti aprì la strada all'aumento del numero e delle figure dei docenti attraverso il famigerato meccanismo dell'ope legis. Nella seconda metà degli anni Novanta, poi, la riforma Berlinguer provvide alla crescita dei titoli di studio, delle facoltà, dei corsi di laurea, degli insegnamenti. Una vera e propria moltiplicazione, incontrollata e incontrollabile, del sapere universitario che non ha giovato né alla qualità degli insegnamenti né, tanto meno, al livello di acculturazione della popolazione studentesca. E tra l'una e l'altra riforma, altri provvedimenti hanno contribuito ad aggravare un disastro annunciato. Intendiamoci. Quasi sempre tutte le grandi riforme hanno un vizio d'origine: sono il frutto di una mentalità, in certo senso, illiberale fondata su quello che Friedrick von Hayek definiva «l'abuso della ragione» ovvero la convinzione che il legislatore sia in grado di raddrizzare le gambe ai cani per decreto. A questo destino anche le riforme universitarie non sono venute meno, tanto più che la grande maggioranza dei provvedimenti relativi all'università varati nel corso degli anni hanno obbedito a logiche di natura sindacale o corporativa e sono stati attenti - più che a definire e portare avanti una «filosofia» educativa e a preoccuparsi della qualità dell'insegnamento o del futuro e della preparazione degli studenti - a proteggere gli interessi più o meno consolidati e lo sorti dei professori universitari, dei ricercatori, degli incaricati e dei precari a vario titolo gravitanti attorno al mondo universitario. Il risultato di tutto ciò è stato che l'università è andata sempre più degradandosi. Anche Maria Stella Gelmini - uno dei migliori ministri fra quanti nel tempo hanno occupato la poltrona del suo dicastero - ha dovuto, probabilmente, tener conto di resistenze o di pressioni indebite da parte di strutture corporative, ma è riuscita a portare in porto, senza danni, la navicella di una riforma che, per la prima volta, obbedisce a una logica complessiva di natura meritocratica e non corporativa. Lo ha fatto in un tempo relativamente breve e superando l'ostacolo delle centinaia e centinaia di emendamenti proposti da tutte le parti. C'è una filosofia dell'efficienza a monte della riforma Gelmini dell'università, una filosofia che può essere ricondotta a pochi punti. In primo luogo, la lotta contro sprechi di danaro e di risorse ottenuta, per esempio, attraverso l'eliminazione o l'accorpamento di atenei, facoltà, corsi di laurea, insegnamenti talora risibili o inutili. In secondo luogo, la preoccupazione per una buona governance fondata, attraverso l'introduzione di un limite alla rieleggibilità dei rettori, su una rotazione nelle cariche. In terzo luogo, l'intenzione di garantire l'accesso alla docenza attraverso meccanismi concorsuali e selettivi in grado di eliminare o ridurre la piaga del nepotismo. E si potrebbe proseguire, citando, per esempio, la fissazione di vincoli all'assunzione di personale docente per quegli atenei che non si rivelino «virtuosi» nella gestione dei finanziamenti statali. O anche la definizione di nuovi limiti di età per il servizio attivo dei professori in ruolo. E via dicendo. Una riforma, semplice e articolata, al tempo stesso. Una riforma frutto della volontà di fare davvero qualcosa di concreto. Forse, come si diceva in apertura, non la migliore delle riforme, ma certamente la migliore oggi possibile. Una riforma all'insegna del realismo. Brava Gelmini!

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