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Il voto fa tremare i polsi a tutti

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C'è una battuta di Woody Allen che descrive bene l'atmosfera che si respira dalle parti di Fini e di Casini: «Non è che ho paura di morire. È che non vorrei essere lì quando questo succederà». I due dichiarano pubblicamente di non avere affatto paura delle elezioni, ma in realtà le temono. Sondaggi alla mano, non vorrebbero trovarsele fra i piedi. Anche perché, quanto meno per la stessa sopravvivenza di Futuro e Libertà, potrebbero rivelarsi davvero pericolose. La paura, insomma, fa novanta. E, come sempre, è una cattiva, perfida consigliera. È la paura che spinge i finiani a dichiararsi disponibili ad alleanze governative e, persino, elettorali con partiti e forze antiberlusconiane. Salvo, poi, a tornare indietro e ad assicurare che mai si presenterebbero insieme al Pd. È ancora la paura che spinge Fini e la sua corte ad avanzare a Berlusconi l'offerta politica, qualche giorno o qualche ora prima esclusa a priori, di guidare un nuovo governo di centrodestra, un Berlusconi bis, insomma, varato con il passaggio delle dimissioni prima del 14 dicembre per evitare il voto del Parlamento. È circolata, in proposito, persino la voce, riportata da alcuni quotidiani nazionali, secondo la quale a un premier convinto che lo si voglia comunque eliminare dalla scena politica e che ritiene (giustamente) di non potersi fidare della parola dei suoi ex compagni di cordata sarebbe stato proposto da esponenti autorevoli di Futuro e Libertà un «impegno scritto» che gli garantirebbe il reincarico dopo le dimissioni farsa necessarie alla pattuglia dei finiani per non perdere la faccia. Si tratta di una voce, di un rumour. Ma è una voce che la dice lunga sulla fifa blu che scorre nelle vene di certi personaggi. E che, soprattutto, la dice ancor più lunga sul modo con il quale viene concepito il galateo istituzionale dalle parti di Futuro e Libertà. Una ipotesi del genere sarebbe, infatti, a dir poco, una intromissione inammissibile nelle prerogative del Capo dello Stato, al quale compete formalmente il conferimento del mandato per la formazione di un governo. Del resto, però, c'è ben poco da meravigliarsi. Il rispetto per le istituzioni e per la sacralità delle istituzioni - che dovrebbe costituire, davvero, il sale di una sana democrazia rappresentativa - è stato messo in crisi, se non addirittura vilipeso, dalla permanenza del leader di Futuro e Libertà alla presidenza della Camera dei deputati e dai suoi comportamenti non certo in linea con il ruolo di garante super partes dei lavori e degli equilibri parlamentari. La paura, dunque. La paura delle elezioni. Già, perché questo scenario - per quanto esorcizzato e temuto dai tanti parlamentari che rischierebbero di tornarsene a casa senza pensione e probabilmente di rimanerci - è uno scenario possibile, forse anche probabile. Che cosa, infatti, potrà accadere il 14 dicembre? Prima ipotesi: Berlusconi ottiene la fiducia al Senato e alla Camera. Il governo va avanti, ma - è lecito domandarselo - fino a quando? E con quale spazio di manovra se la sua maggioranza è tenuta insieme non da un programma ma dal collante della paura di dover rinunciare a privilegi e rendite di posizione e dover tornare a casa? Seconda ipotesi: Berlusconi ottiene la fiducia al Senato ma non alla Camera. A questo punto, egli può andare dal Capo dello Stato e chiedere, in nome della stabilità politica, lo scioglimento della sola Camera dei deputati o di entrambe le Camere. È una richiesta logica. Da più parti si è fatto notare che l'indicazione sulla scheda elettorale del nome del premier è un segnale politico forte. Ma c'è di più. E di ben più giuridicamente rilevante. Molti parlamentari, infatti, sono stati eletti grazie al premio di maggioranza attribuito alla coalizione vincente: se la coalizione si sfalda viene meno anche la «legittimazione» se non la «legittimità» della loro nomina. Con quel che ne consegue. Un eventuale nuovo governo, diverso dall'attuale, apparirebbe non soltanto un tradimento degli elettori - il governo del ribaltone insomma - ma anche un governo espresso da un Parlamento con un deficit di «legittimazione». Il che, è prevedibile, finirebbe per far alzare la pressione politica del paese fino a livelli probabilmente incontrollabili. Il Capo dello Stato, nella eventualità in cui Berlusconi dovesse presentarsi a lui per rimettere il mandato, dovrà tenere conto di tutte queste considerazioni, non solo giuridiche, ma anche, e soprattutto, politiche e di opportunità. E non è affatto escluso che la scelta delle urne gli appaia la migliore e più corretta delle soluzioni. Una soluzione che fa tremare le vene e i polsi di chi questa crisi ha voluto innescare. Con assoluta incoscienza e nel totale disprezzo delle indicazioni degli elettori.  

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