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Segreto di stato su Finmeccanica

Finmeccanica eccelle nel campo della tecnologia per la difesa

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La vicenda Finmeccanica viene affrontata da tutti – indagati, magistratura, governo, opposizione, azionista Tesoro – nel peggiore dei modi. Su un punto ha ragione Berlusconi: è un suicidio danneggiare l'immagine e l'operatività di un gruppo di eccellenza nell'alta tecnologia, senza contare il business militare. Ma solo su questo il punto di vista del Cavaliere è condivisibile. E meno ancora lo è mettere l'indagine sulla Finmeccanica (forse il solo gruppo d'eccellenza che l'Italia può vantare) in un unico fantasmagorico e poco credibile complotto che va dai dossier di Wikileaks ai crolli di Pompei fino alla spazzatura a Napoli. Lo ha detto come è noto Franco Frattini, ministro degli Esteri, che non un peone qualsiasi. E ha sbagliato, perché il vittimismo del governo non c'entra nulla, anzi risulterà doppiamente controproducente se qualche magistrato volesse rispondere con ripicche e ritorsioni politiche secondo abitudini ben collaudate. Il problema della Finmeccanica va invece ricondotto alla Finmeccanica stessa, e a sua volta esaminato razionalmente nelle sue valenze interne – accertate e accertabili - ed esterne. Primo punto: è noto che il business delle armi e delle tecnologie militari ricorre sia ad intermediari che si muovono in totale autonomia e spesso spregiudicatezza, sia a fondi neri o non contabilizzati. È un'area grigia che serve ad evitare ai governi, soprattutto a quelli occidentali, ed alle aziende di sporcarsi le mani. Tanto più se si deve agire e competere sui mercati border line dell'Africa, dell'Asia, del Medio Oriente, del Sud America. Ma anche se qualcuno pensa che le forniture al Pentagono si svolgano secondo aste alla luce del sole, diciamo che quanto meno si illude. Il problema è chiarire se i fondi extrabilancio e gli intermediari hanno agito nell'interesse del gruppo, e quindi di riflesso dei suoi azionisti tra cui il Tesoro, e secondo un concetto più allargato del sistema Italia; oppure se l'obiettivo era l'arricchimento personale o di qualche altro soggetto, i soliti tuttora non meglio identificati "politici”. Ad oggi questa seconda ipotesi non è stata dimostrata, e per la verità non appare ben definita neppure la prima. Nel frattempo dalla procura di Roma e dagli inquirenti continuano ad uscire particolari, dettagli sulle indagini, organigrammi, vicende private, che i giornali ovviamente pubblicano facendo il loro lavoro, ma sui quali sembra non agisca alcun elementare segreto istruttorio. Non è neppure questa una novità, sennonché qui non siamo ad Avetrana. C'è in ballo la sicurezza nazionale da una parte, il destino di un gruppo e di un intero settore strategico per il Paese dall'altra. Che cosa aspetta il governo, anziché alzare lamentazioni inutili e autocommiseratorie, ad opporre il segreto di Stato? Che cosa aspettano i ministeri coinvolti – dalla Difesa ai Trasporti fino all'azionista Tesoro – a tutelare i loro interessi ed i loro asset? Interessi e beni che tra l'altro non riguardano soltanto l'esecutivo ma anche i piccoli azionisti e gli obbligazionisti, che già in questo periodo devono vedersela con la crisi globale. Questo passaggio è preliminare e condizione indispensabile per il secondo: chiarire cioè se gli illeciti, se esistono, coinvolgono davvero i nomi sbattuti sui giornali, oppure se tutto rientra nella zona grigia che dicevamo. Ma non solo. Che l'Enav, l'ente che si occupa della sicurezza dei nostri voli e delle nostre rotte, affidi le proprie commesse con procedure diverse da quelle di un'asta per beni demaniali, non può fare scandalo di per sé. Che abbia privilegiato un'azienda italiana rispetto ad una concorrente francese può essere una prassi sanzionabile solo in rapporto al comportamento che tengono agenzie ed enti analoghi in Francia, in Germania, negli Usa e altrove. Discorso diverso, ripetiamo, è se tutto, ma davvero tutto, è riconducibile – però va puntualmente provato – ad arricchimenti personali in Italia. Nel frattempo lo Stato, e per lui il governo, dovrebbe pretendere dalla magistratura la massima rapidità, oppure la massima riservatezza. Al contrario abbiamo un'inchiesta che si trascina da vari mesi; come di consueto da noi “prendendo le mosse” da altre faccende – Fastweb, Telecom – e si trasmuta via via in filoni che toccano ambiti ben diversi, ben più grandi. Quindi non abbiamo né celerità né riservatezza, ma un indistinto risiko investigativo nel quale c'è una sola grande vittima: lo Stato italiano. Cioè il Paese ed i suoi interessi nell'area strategica più complessa e delicata, quella militare e della sicurezza. Non occorrono né censure alla stampa né briglie alla magistratura. Occorre un criterio di responsabilità ed un'autorevolezza che il governo – da palazzo Chigi al Tesoro – possono pretendere ed esercitare sui pm. Non siamo, e probabilmente non diverremo mai, un Paese nel quale “i pubblici ministeri stanno sotto il governo”, secondo lo slogan ripetuto in questi giorni. Però non siamo neppure, e la nostra Costituzione lo esclude, un Paese nel quale i pm debbano stare sopra il governo, sopra lo Stato e sopra i suoi interessi, che sono gli interessi di tutti. Non accade di norma in nessuna parte dell'Occidente. E quando accade – vedi proprio la vicenda di Wikileaks – governi e stati cercano di correre ai ripari.

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