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segue dalla prima di SIMONE DI MEO (...) l'ex ministro dell'Ambiente del clan dei Casalesi.

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C'èun particolare, però, che purtroppo non viene sottolineato a sufficienza a proposito delle organizzazioni criminali che si occupano di rifiuti. E cioè le difficoltà che gli organi inquirenti e la magistratura si trovano ad affrontare quando s'imbattono in un filone investigativo particolarmente interessante, vuoi per mancanza di adeguati strumenti legislativi, vuoi per una condizione di sostanziale isolamento rispetto agli altri attori in scena (politica, imprenditoria, alta burocrazia). Prendiamo il caso di Vassallo, ad esempio. Il colletto bianco dei clan ha indicato i luoghi dove i tagliagole casertani hanno sversato migliaia di tonnellate di rifiuti, ha fatto i nomi dei suoi complici, ha denunciato i suoi dieci fratelli, colpevoli - come lui - di aver avvelenato ettari ed ettari di campagna, ha tirato in ballo l'ex sottosegretario Nicola Cosentino nell'affaire, indicandolo come uno dei capi della cricca che, attraverso la politica e la camorra, fa soldi con la monnezza, ha raccontato (e questo fa bene Roberto Saviano a ricordarlo) come finanche i topi morissero in prossimità dei siti illegali di sversamento, ha alzato il velo sulle ricchezze accumulate dalla holding rifiuti spa, qualcosa come quaranta milioni di euro. Tutto questo ha detto, Vassallo, nei suoi interrogatori tra 2008 e 2009, sollevando un coro unanime di indignazione e di incredulità nell'opinione pubblica locale e nazionale. Possibile che Vassallo sapesse tutto questo? Possibile che in Campania accada tutto questo? Possibile che nessuno prima se ne sia accorto? Eppure, Gaetano Vassallo non è un nome nuovo per chi si occupa di inchieste giudiziarie e non avrebbe dovuto esserlo nemmeno per quelli che, per almeno venti anni, lo hanno lasciato libero di pascolare su e giù per Caserta a seminare morte e malattie. Di lui si sa parecchio. E già da tempo. Nel giugno 1992, Vassallo viene arrestato nell'ambito di un'inchiesta su trafficanti di droga e di armi. A parlare di Vassallo ai pm, a quel tempo, è proprio un pentito che lo accusa di avere rapporti malati con alcuni sindaci del Casertano, rapporti confermati anche da alcune intercettazioni telefoniche che lo dimostrano in ottimi rapporti con i politici locali. Un anno dopo, e siamo al 1993, la maxi-inchiesta Adelphi apre uno squarcio sul business delle discariche abusive. E chi finisce diritto diritto nelle 4mila pagine dell'informativa dei carabinieri? Proprio Gaetano Vassallo, indicato - già allora - come trait d'union tra la politica e la criminalità organizzata. Tre anni dopo, Vassallo viene condannato a due anni e sette mesi di reclusione, a fronte di una richiesta di sette anni avanzata dal pm. Ovvio che, uscito dall'aula di tribunale, il ministro dell'Ambiente dei Casalesi ritornasse in gioco; e ci vorranno altri quindici anni perché venga messo all'angolo, e con lui smantellato l'impianto infernale messo in piedi dietro il paravento della gestione di una discarica a Cesa, un paesino dell'hinterland casertano, dove lo stesso Vassallo è stato per lungo tempo consigliere comunale. Questo che cosa significa? Che l'intuito investigativo aveva visto giusto, e lungo, e che - forse forse - si poteva risparmiare alla martoriata Campania (in)felix un decennio e passa di avvelenamento, e che non sarebbe male ascoltare l'appello che il procuratore nazionale antimafia, Piero Grasso, ha rivolto al mondo della politica: prevedere il reato associativo ambientale. Una richiesta che il capo dei pm antimafia italiani ha esplicitato, ufficialmente, il 17 giugno 2009 nel corso di un'audizione davanti alla Commissione d'inchiesta sul ciclo rifiuti, e che prevede di far rientrare il traffico di rifiuti nella competenza della Direzione distrettuale antimafia una modifica dell'articolo 51, comma 3bis, del Codice di procedura penale. Si tratta di una modifica capace di attribuire ai pm antimafia la competenza sui reati connessi al ciclo dei rifiuti, mentre gli altri reati resterebbero attribuiti alle singole procure. In questo modo, si consentirebbe anche di recuperare alle indagini l'uso delle intercettazioni telefoniche in materia, che non sempre è possibile utilizzare, se non si riesce a dimostrare la riconducibilità dei traffici alla criminalità organizzata. E - l'esperienza dimostra - che quasi mai i camorristi gestiscono in prima persona un affare tanto grosso, su cui tanti, troppi hanno costruito fortune personali ancora oggi invisibili.

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