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Fenomenologia del "Fazismo"

Fabio Fazio e Roberto Saviano in Vieni via con me

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Circa un secolo fa la buonanima di Lenin decretò che l'estremismo è la malattia infantile del comunismo. Ma quale sarà mai quella del post-comunismo? Chissà, potrebbe essere il “fazismo”, espressione che non è una corruzione di “fascismo”, ma che derivando dal cognome del nostro più diligente tele-piazzista di avanzi culturali e patacche politiche, onora il suo portatore attribuendogli, se non proprio la paternità, quanto meno il patrocinio di quella terza specie di fascismo che poteva nascere soltanto. Ciò sembra contraddire una famosa battuta di Ennio Flaiano: quella con cui, circa cinquant'anni fa, quello strepitoso osservatore di cose italiane, nonché gran conoscitore della natura degli italiani, affermò che esistono due specie di fascisti: i fascisti e gli antifascisti. Geniale paradosso, che gli fu naturalmente suggerito dalle più o meno evidenti affinità di carattere, gusto e stile ravvisabili nei membri di quelle due opposte famiglie, ma che oggi, visto l'avvento di quella terza specie di fascismo che sarebbe appunto il “fazismo”, potrebbe sembrare superato. Invece è più attuale che mai. E a mostrarne la suprema attualità ha provveduto proprio il tele-scaccino Fabio Fazio assegnando ai due grandi capetti di quel che resta delle due ricordate famiglie il compito di rivelare la genialità profetica del motto flaianesco associandosi pubblicamente nel comune progetto di abolire il solo nostro leader politico che non abbia mai civettato né con l'una né con l'altra. Quanto alle idee e ai sentimenti del nostro cerimoniere, c'è chi sospetta che egli sia un furbissimo ruffiano che va sempre e soltanto là dove lo porta il suo fiuto di esperto e astuto tele-valletto. Ma non è affatto così. Per servire i suoi ideali con tanta diligenza e serietà, prontezza e sollecitudine, soave fermezza e liliale faccia tosta, non basta avere la stoffa di un lacché. Occorre essere anche un ometto di fede. Giacché soltanto una fede sincera può ispirare a chi ne sia soggiogato quell'umiltà e quella pazienza che portano sempre i veri e schietti credenti a venerare e adorare le proprie divinità, a trattarle sempre con la deferenza e il rispetto richiesti da una lieta devozione, e soprattutto a fremere di sacra, voluttuosa commozione al semplice contatto con una qualsiasi di esse. L'oggetto privilegiato della sua fede è ovviamente la dea Cultura. Che per lui dev'essere un poster in cui la faccia di Umberto Eco si confonde con quella di Luciana Littizzetto. Ma che nel suo petto ovviamente convive con la dea Politica. Che sempre a suo avviso è forse un pappagallo che sa dire solo “Abbasso il Cavaliere”. Tanto salda è la sua fede nella sacralità del suo tele-tinello che si può sospettare che egli, a modo suo, sia addirittura un mistico. Da certi suoi toccanti sorrisini, da certe sue smorfiette di piacere, e ancor più certi lampi dei suoi occhietti, non è irriguardoso dedurre che a volte, durante il suo lavoro, gli accada di essere scosso da quel sublime frisson che squassa i grandi mistici quando essi accedono a quello stato di suprema beatitudine che certifica loro l'unione estatica col divino. Egli però non ignora che fra le virtù che si addicono al suo lavoro figura la verecondia. Dev'essere per questo che quando stringe la mano a qualche star come Claudio Abbado o Roberto Benigni, o magari Roberto Saviano, e ancor più quando li abbraccia, cerca pudicamente di nascondere l'effetto orgastico che queste esperienze unitive gli procurano.

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