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Così preparano il Biscottone

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Lepietre sono rotolate a valle e lui in cuor suo gode tantissimo di questa situazione. È entrato in una fase parossistica il cui ritornello è «Silvio deve cadere», tutto il resto per lui è noia. Ad horas i suoi ministri lasceranno (con il magone e molta preoccupazione per l'indennità perduta) la poltrona, poi ci sarà un salto nel buio dell'iperspazio politico. Fini ha in mente un piano di salvataggio per se stesso e i suoi fedelissimi che ha due vie possibili: convincere Berlusconi ad allargare il suo governo e consegnarsi al boa constrictor di Futuro e Libertà-Udc, oppure convincere Napolitano sulla bontà di un governo tecnico e trascorrere qualche mese ancora al riparo, il tanto che serve per organizzarsi a elezioni anticipate ma non troppo. Ieri ha visto il suo potenziale complice nell'operazione, Pier Ferdinando Casini, ha parlato con Letta, saggiato la visione del Quirinale. Chi dice che è disperato si sbaglia, Fini è in una fase psicologica in cui non prova quel senso di smarrimento, sa che anche nella Terza Repubblica avrà un ruolo, il problema è solo arrivarci nel miglior modo possibile, senza farsi troppo male e con le batterie cariche. Ci riuscirà? Al di là dei proclami umbri, il suo partito non esiste, è un'accozzaglia di belle e brutte speranze che deve fare i conti con la categoria politica del «tradimento» e un elettorato di destra che non ha alcuna intenzione di votarlo. I sondaggi migliori lo danno al 7 per cento, quelli più realisti in una banda che oscilla tra il 3 e il 5 per cento. Troppo poco per contare da solo. Ecco perché ha bisogno di alleati. Non può andare al voto anticipato subito, non può sbarellare totalmente a sinistra. Deve giocarsi la carta della manovra di Palazzo. Pier Ferdinando Casini. Ha dalla sua una posizione chiara assunta due anni fa: sta all'opposizione di Berlusconi, non ha accettato nessuna offerta del Cav in passato e imbarcarsi oggi in un'operazione di regime non è per lui il massimo. Ha bisogno di una crisi conclamata del governo uscente per poter partecipare a un'altra avventura. Il suo partito ha perso alcuni pezzi della scacchiera che pesano, soprattutto in quella Sicilia che nelle scorse elezioni politiche gli ha consentito di eleggere i suoi tre senatori. Con Fini non condivide un bel niente, tranne il fatto che vuole la sparizione del Cavaliere. Sul resto, buio fitto. Un programma politico scritto da Fini e Casini avrebbe seri problemi psichiatrici, sarebbe una personalità sdoppiata: il laicista Gianfranco con il cattolicissimo Pier. Fini era per staccare la spina a Eluana Englaro, Casini per la volontà di Nostro Signore. Il capo di Fli è guardato con sospetto dal Vaticano (basta leggere Avvenire per capirlo), quello dell'Udc resta una pedina della politica terrena della Santa Sede. Entrambi cavalcano la battaglia moralista contro il Supercavaliere erotico, ma entrambi sono divorziati. Dopo l'odio per Berlusconi hanno in comune il cambio dei pannolini della prole. È una suprema alleanza dei passeggini che con queste premesse può giusto varare un governo tecnico, una transizione, poi essendo due galletti nel pollaio torneranno a prendersi a colpi di beccuccio e artiglietto. Umberto Bossi. Nei panni del mediatore non lo avevamo ancora visto adoprarsi e l'unica cosa media visibile in questi mesi del nostro Umbertone è stato il suo fierissimo dito medio alzato di fronte all'intero mondo. Bontà sua, ha deciso di provarci e tutti noi trepidiamo in attesa di novità roboanti. È il politico più furbo e intelligente della baracca politica, uno che male che vada domina tutto il Nord mentre gli altri si leccano le ferite. Un governo tecnico per lui è un regalo colossale, una manna padana: mesi di campagna elettorale con il dito alzato, il rutto incorporato, lo slogan popolano e una capacità di dragare voti impareggiabile. Fini e i suoi sodali hanno appena smontato in Parlamento l'accordo con la Libia sui respingimenti degli immigrati, vallo a spiegare a quelli delle valli che votano Lega. Eppure Bossi ha il dovere di provarci, per lui c'è una missione da concludere: il varo del federalismo prima che tutto il resto vada a carte quarantotto. Messi a posto i decreti per dare autonomia al Nord, si potrà andare alle urne e il Carroccio avrà un bottino di guerra ricco quel tanto che serve per porre le premesse di un'Italia a doppia velocità e doppio Stato: da una parte il Nord che guarda alla Baviera, dall'altra il Sudistan di Fini e del partito della spesa galoppante. Il suo tentativo diplomatico è generoso, se va a segno, la legislatura continua come prima e più di prima nel segno della Lega, se va male, appena uscito dalla stanza di Fini tirerà fuori lo spadone di Alberto da Giussano e vedremo rotolare le teste sognanti di mezzo Parlamento. Gianni Letta. È il mediatore eterno, la felpata presenza istituzionale, il cervello fino nella stanza dei bottoni. Ieri ha avvisato tutti i naviganti del globo terracqueo: «La prospettiva del governo è stretta». Affiorate dalle sue labbra quelle parole significano una sola cosa: siamo a un passo dal botto finale o dalla salvezza in extremis. Un suo governo tecnico sarebbe la garanzia migliore per il Cav, ma il nostro dovrebbe poi fronteggiare il fuoco incrociato dei magistrati e del giornale-partito di Repubblica. Giorgio Napolitano. Ieri ha detto: «Ci sono troppe incognite. Bisogna fare i conti con i problemi concreti». Ecco, il presidente della Repubblica è un Terzinternaziolista, un uomo della Realpolitik. Non vuole pasticci, chiede che venga approvata la finanziaria, sa benissimo che non si può fare un governo con Bossi, Berlusconi e Tremonti all'opposizione e soprattutto non ha nessuna intenzione di candidarsi all'Oscar (Luigi Scalfaro) del ribaltone. Silvio Berlusconi. Il Bunga Bunga nei sondaggi per ora gli fa un baffo, l'asse Pdl-Lega continua ad essere il favorito nella corsa elettorale. Lui lo sa e gioca a fare il gatto con il topo. Non si dimette, aspetta Fini, l'uomo con il cerino in mano. Il Biscottone è in cottura, ma con queste premesse rischia di uscire dal forno di Palazzo bruciacchiato. Vedremo presto chi in Parlamento ha il coraggio di mangiarlo.

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