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La secessione di Marchionne

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L'uomo con il maglioncino blu, Sergio Marchionne, spezza le convenzioni linguistiche e le incertezze che dominano la politica dei giorni d'oggi e usa quella che ai politici oggi sembra mancare: la chiarezza del messaggio. Così quello che dice, ospite della trasmissione di Fabio Fazio «Che Tempo che Fa» spiega a un pubblico di non addetti ai lavori che se «si tagliasse l'Italia il gruppo starebbe meglio». Uno schiaffo. Già, dei due miliardi di euro di utile operativo (cioè derivato dalla vendita di macchine e non da operazioni finanziarie) che saranno evidenziati a fine anno nel bilancio del Lingotto non un solo euro arriverà dal Paese in cui la Fiat è nata. Questo non significa che i torinesi siano con la valigia alla porta. Al contrario vorrebbero solo aumentare l'efficienza delle fabbriche della Penisola, richiesta legittima da parte di chi produce, e monetizzare (leggere aumentare il salario) il recupero di produttività. Ma la provocazione rende giustizia alla chiarezza e abbatte in un sol colpo le barricate ideologiche sindacal-politiche che vedono nelle richieste di Fiat solo un attacco ai diritti dei lavoratori. Che rischiano di restare con i diritti ma senza fabbriche e senza salario. Ma tant'è e con altrettanta lucidità lo stesso Marchione ha subito disinnescato la mina dietrologica su una sua possibile discesa in politica. Uno sport assai praticato oggi nelle piazze mediatiche italiane da manager e capi di azienda. «Scherziamo - ha replicato a Fazio - sono un metalmeccanico, faccio auto, camion e trattori». Ma il vero punto è quello del conto economico che riflette la scarsa competitività italiana: «La Fiat non può continuare a gestire in perdita le proprie fabbriche per sempre». La Fiat, del resto, ha ripagato «qualsiasi debito verso lo Stato in Italia». «Non voglio ricevere un grazie - ha aggiunto - ma non accetto che mi si dica che chiedo assistenza finanziaria». Il Paese si trova «al 118/mo posto su 139 per efficienza del lavoro e al 48/mo posto per la competitività del sistema industriale». «Siamo fuori dall'Europa e dai Paesi a noi vicini - ha proseguito Marchionne - e il sistema italiano ha perso competitività anno per anno da parecchi anni». «Negli ultimi 10 anni - ha sentenziato - l'Italia non ha saputo reggere il passo con gli altri Paesi, ma non è colpa dei lavoratori». Una posizione mondiale, quella del nostro paese, che «non possiamo ignorare», dunque «qualcosa bisogna fare, perché non c'è nessuno straniero che investe qui». Soprattutto, secondo il manager italo-canadese, «gli attacchi verso la Fiat di questi giorni sono fuori posto e non aiutano a richiamare investimenti in Italia dall'estero». In questo quadro Marchionne inserisce la proposta per le fabbriche italiane di estendere a Melfi le regole approvate per Pomigliano. In particolare Marchionne ha sottolineato come «il sistema di 3 pause ogni 10 minuti anziché 2 da venti è già applicato a Mirafiori e fa parte degli sforzi per ridisegnare il processo di produzione, e i 10 minuti che si perdono sono pagati». «La proposta che abbiamo fatto - ha aggiunto- è dare alla rete industriale di Fiat la capacità di competere con i Paesi vicini a noi, in cambio io sono disposto a portare il salario dei dipendenti a livello dei nostri Paesi vicini e vogliamo migliorare i 1.200 euro di stipendio ai dipendenti». Per questo «serve un progetto condiviso, non posso accettare che tre persone mi blocchino un intero stabilimento, questa è anarchia non democrazia». Parole che hanno generato una puntualizzazione del Governo. Il ministro del Lavoro Maurizio Sacconi ha risposto «L'Italia è un Paese che già ha dimostrato l'attitudine ad evolvere verso una maggiore competitività nel rispetto dei diritti dei lavoratori incluso il diritto a incrementi salariali legati a una maggiore produttività e se legittimo invocare maggiore produttivita», è anche vero che «la maggioranza delle organizzazioni sindacali e le istituzioni si sono già rese concretamente disponibili ai necessari cambiamenti».  

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