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Gianfry e Rosy, la strana coppia

Gianfranco Fini e Rosy Bindi

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Dal finismo al bindismo, con un intermezzo nel postfascismo, un passaggio nel liberalismo e un tuffo nel gossipismo. Che le idee politiche in giro tra coloro che si autodipingono alternativi a Berlusconi fossero poche e ben confuse ce ne eravamo accorti da tempo, ma la sparatona di Rosy Bindi su un'alleanza futura con quelli che vogliono fare futuro è davvero un progetto disneyano. Ne sentivamo la mancanza. Siamo dunque in trepidante attesa di vedere al più presto la strana coppia, Bindi-Fini, deliziare chi ama la politica con un programma che gli italiani voteranno in massa. La nuova destra s'è desta: da Almirante a Don Sturzo, dalla sacrestia al casinò di Montecarlo, da via della Scrofa a piazza del Gesù, dal fascio all'ostia, dal mio canto libero al Te Deum, Gianfry da Ely a Rosy.   Penso a chi ha militato in An, immagino le loro facce e i commenti increduli su questa maionese impazzita, una marmellata post-ideologica che può presentare un programma degno al massimo di un post-it. Giunti a questo punto, liberiamo la fantasia, perché tutto è possibile. Sembrerebbe tutto uno scherzo e invece no. C'è chi a questa cosa dà credito, fa quelle che in politica si chiamano «aperture». Prendete uno a caso, Pier Luigi Bersani. Il segretario del Pd s'è tolto la mascherina, è uscito dalla sua aziendina di autospurgo democratico, ha ammesso a dentini stretti di aver usato «una parola un po' forte» definendo «fogna» il berlusconismo e poi ha detto: «Noi siamo per un'alleanza che ho chiamato nuovo Ulivo per un'alternativa di governo e per una proposta larga per quel che riguarda le regole del gioco. Dopodichè aggiungiamo, in un caso di emergenza, che queste due proposte possono collegarsi». Traduzione per i non credenti: Bersani, pur di mandare a casa Berlusconi, ci sta, eccome se ci sta. Cosa sta succedendo? Una cosa in fondo elementare, uno spettacolo al quale stiamo assistendo dal crollo del Muro di Berlino: se in Italia c'è un'emergenza, questa riguarda la qualità dell'opposizione, il mistero sempre meno buffo e sempre più drammatico dei postcomunisti che non riescono a liberarsi del post perché tengono al posto, il dilemma di una classe dirigente che dai tempi dei ragazzi di Berlinguer (D'Alema, Veltroni, Fassino e c.) non riesce a rigenerarsi e nel frattempo sta consumando un patrimonio di voti in cambio di un patrimonio di poltrone. Il Pd è senza guida e senza patente. Avrebbe dovuto aiutare l'Italia a uscire dal pantano della transizione e dell'antiberlusconismo a tutti i costi e invece il Paese si ritrova con un'opposizione Ridolini in mano a Di Pietro che un giorno sì e l'altro pure la prende a legnate sui denti. Cose che, non dico uno statista, ma un dirigente politico di provincia del vecchio Pci mai avrebbe tollerato. Erano comunisti, ma almeno un po' seri.   E così siamo all'assurdo che gli ex Popolari spiegano alla Bindi che questo tuffo carpiato non si può fare perché la piscina è vuota e ci si rompe la testa, mentre il segretario del partito o ci crede o ci fa. Mi vengono i brividi se penso a un filosofo della politica come Gramsci e poi alla tovaglietta con i quadratini rossi, il bicchiere di bonarda e la partita a scopa che sono la visione del mondo della politica bersaniana, roba che non attacca più neppure nell'Emilia rossa. Se son Rosy, sfioriranno. Se questo è il Pd, al posto di Fini e dei cosiddetti finiani un brivido dovrebbe percorrermi la schiena. Se quello che dovrebbe essere il tuo avversario naturale, quello che fino a ieri ti considerava uno venuto fuori dalla «fogna fascista» comincia ad adularti, a lisciarti il pelo, a dirti quanto sei bravo, quanto sei illuminato, quanto sei intelligente, quanto politicamente sei il migliore, quanto tutto dipenda dal tuo voto per far cadere l'odiato Silvio, se accade tutto questo dalle mie parti ti interroghi, ti poni una domandina elementare: dov'è l'errore? Invece no, i finiani e, purtroppo, anche e soprattutto il presidente della Camera sono cascati nell'erroraccio infantile dell'ego che cede alla lusinga, del narciso che si sente accettato tra gli aristocratici intelligenti, tra quelli che hanno il salotto vellutato e con le stampe d'epoca rigorosamente zdanoviane, la libreria con i tomi della Scuola di Francoforte, un po' di romanzetti alla Baricco, un Calvino, quattro classici aperti per caso, un libro d'arte in bella mostra sul tavolino davanti al divano, lo champagne in fresco e la terrazza illuminata.   L'ansia d'accreditamento, il desiderio puerile d'essere finalmente accettati nella buona società, di presentarsi con autista e carrozza e darsi finalmente un tono ha prodotto un patatrac politico colossale. E domani Fini a Mirabello dovrebbe provare a cancellare tutto questo, dirci che qualcosa è cambiato, che sono stati commessi degli errori, magari spiegarci che a Montecarlo il cognato non c'è finito per caso e questa cosa forse merita una lavata di capo e non un lavaggio della Ferrari 458 Italia del cognatino nel Principato. Fini in pochi mesi ha fatto esattamente quel che la classe dirigente del Pd fa da anni: s'è dimenticato da dove viene, quali sono le sue radici e improvvisamente s'è messo a inseguire il mito della «nuova destra», una terra di mezzo nella quale s'è comicamente perso e dalla quale non so se riuscirà più a uscire. Dicono voglia fare un nuovo partito. Auguri. Dicono voglia tendere la mano a Silvio. Auguri doppi. Non so di che tenore sarà il suo intervento domani a Mirabello, ma certo se fossi in lui lascerei da parte l'odio per Berlusconi e penserei un po' alle migliaia di militanti che nella destra rappresentata da Fini hanno creduto fino a poco tempo fa. Davvero non valgono niente? Davvero pensa di conquistare il cuore e la mente di quel blocco sociale con la ricetta dell'antiberlusconismo, la stessa che da sedici anni relega la sinistra nel cono d'ombra della sconfitta? Ha ventiquattrore di tempo per pensarci bene. Poi il diluvio su Mirabello non sarà atmosferico, ma politico. E la rottura nel Pdl sarà intestata a lui, come l'affitto della casa del cognato a Montecarlo.  

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