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Che barba i barbari di Scalfari e Baricco

Eugenio Scalfari all'Università La Sapienza

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Mentre Pier Luigi Bersani contribuisce alla civiltà del dibattito pubblico aprendo la sua aziendina di autospurgo democratico, i giganti del pensiero italico non fanno mancare il loro aulico appoggio per lanciare l'allarme sull'Italia, ma che scrivo, sul mondo. Dal transatlantico di Repubblica Eugenio Scalfari ieri ha riempito di senso la nostra giornata donandoci sprazzi di luce e saggezza di cui sentivamo gran bisogno. Incipit di enorme interesse: «Mi ha molto intrigato l'articolo di Alessandro Baricco pubblicato da Repubblica il 26 agosto con il titolo 2026 – la vittoria dei barbari». Ah sì? Accipicchia, com'è che noi non ci siamo accorti di nulla? Dannazione, ero distratto dal passaggio di Zlatan Ibrahimovic al Milan e mi sono perso tutto. Vabbè, provo a recuperare, andiamo avanti: «Mi ha intrigato fin dalle prime righe...». Ok, Scalfari, questo l'abbiamo capito. Su, dai, vai con Baricco, ecco: «Quattro anni fa scrisse una serie di articoli sul nostro giornale e ne trasse poi un libro che ebbe molto successo intitolandolo I barbari. Da allora questo tema è stato al centro del dibattito sull'epoca che stiamo vivendo e sulle caratteristiche che la distinguono». Perbacco, diavolo di un Fondatore, c'è sempre da imparare da lui. Pensa un po', ho una biblioteca di qualche migliaio di volumi, ma mai m'ero sognato di mettere Baricco al fianco di Melville, I barbari vicino a Gadda, o accanto a un Longanesi o a un Paul Auster. Devo proprio rimediare. Andiamo avanti, EuGenio: «Ne ho parlato anch'io nel mio ultimo libro Per l'alto mare aperto dove ho sostenuto la tesi che la modernità ha concluso il suo percorso culturale durato mezzo millennio ed ha aperto la strada ai nuovi barbari». Mammasantissima ed io dov'ero mentre Scalfari faceva tale rivelazione? Una così sublime autocitazione non può che introdurre a una sentenza capitale, inappellabile. Salto dalla prima alla quarantunesima pagina di Repubblica. San Ezio Mauro là ha deposto il pezzone che tutto spiega e tutto rivela.   Dopo aver appreso che Scalfari si trova «in una curiosa condizione» (basta leggerlo per capirlo), che concorda «con Baricco ma nella sostanza no» (qui la faccenda è psicanalitica), che Eugenio «ha il doppio della sua età» (di Baricco) ma «è curioso quanto lui» (sempre Baricco) e «non è affatto un barbaro» (ancora Baricco), arriviamo come in una cronoscalata al nocciolo della faccenda. Eccolo: «In realtà Baricco non sta descrivendo i barbari, ma gli imbarbariti». E chi sono mai? Calma, la risposta è pronta: «Gli imbarbariti parlano ancora il nostro linguaggio ma lo deturpano; usano ancora le nostre istituzioni ma le corrompono; non vogliono affatto preservare il pianeta dalla guerra, dal consumismo, dall'inquinamento e dalla povertà, ma al contrario vogliono affermare privilegi, consorterie, interessi lobbistici, poteri corporativi, dissipazioni di risorse e disuguaglianze intollerabili». Pronto? È in linea? Parla Scalfari? Quale? Il giovane talento che scriveva su Roma Fascista? L'ex fondatore del Partito radicale? L'ex parlamentare del Partito socialista? L'ex direttore dell'Espresso? L'ex fondatore e direttore di Repubblica, il giornale-partito? L'uomo che meritatamente incassò una paccata di miliardi per cedere il controllo del giornale a Carlo De Benedetti? Il cavaliere di Gran Croce? L'ufficiale della Legion d'onore? Chi parla? Vi prego, fatelo rincontrare al più presto con Io. Il dialogo tra lo scrittore in camicia bianca e il vecchio saggio con la barba bianca è un distillato dell'Italia senza potenza narrativa, di moralismo da terrazza e sofisticazione da salotto. È l'Italia che produce gran copia di saggetti, romanzetti, filmetti, articoletti di giornale già letti prima ancora che siano scritti. Scalfari ha molte vite, è un grande giornalista, l'unico ad aver pienamente realizzato con enorme successo il sogno che accarezzano in tanti tra noi: fondare un proprio giornale, portarlo in vetta e guadagnarci dei soldi. Ma nello stesso tempo è la punta di diamante del club che domina le nostre malandate istituzioni culturali, comprese quelle possedute da Silvio Berlusconi. Bariccheggiando e Scalfarizzando si giunge a concludere invariabilmente che c'è un'Italia (o un mondo, dipende dall'umore e soprattutto dall'ego) di migliori e poi ci sono gli altri, gli imbarbariti. C'è un gruppo di illuminati, poi ci sono i bifolchi inconsapevoli, meno dei barbari perché incapaci d'invasione che è sinonimo d'invenzione. Ogni cosa ha origine e si sviluppa nel segno del (pre)giudizio morale. Loro sono migliori, intelligenti, educati e dunque destinati al governo delle cose e se per caso accade che qualcuno rovini questo disegno divino, allora la democrazia è malata e il popolo sopraffatto dall'ignoranza. Questo procedimento di selezione e interpretazione della realtà è esteso a qualsiasi materia dello scibile. A tavolino si decide cosa è progresso e cosa conservazione, cosa è degno di entrare nel dibattito pubblico e cosa debba essere espulso, chi deve parlare e chi deve tacere, quali libri siano degni di attenzione e quali da ignorare, quali autori siano politicamente corretti e quali siano da indicare al pubblico ludibrio o peggio lasciar andare alla deriva dell'oblio. Scalfari assolve la sua missione culturale con tenacia. Egli si definisce un «moderno consapevole» e rispetto ad altre ipocrite sagome che ombreggiano qua e là, non si nasconde dietro giri di parole, lo dice e scrive chiaramente: «Questa battaglia riguarda noi e soltanto noi possiamo e dobbiamo combatterla». Vi è in questa frase finale dell'articolo scalfariano un richiamo a un'impresa solitaria, quasi eroica. Peccato che in realtà lui sia la guida di un esercito che domina senza avversari il mondo della cultura italiana. Non è lui il solitario eroe di questa battaglia, ma i pochi che sono sopravvissuti al bombardamento dei guardiani della rivoluzione in carrozza. Dietro il discorso filosofico, il tono alto, le citazione dotte, sul fondale di uno scenario classico in cui compaiono Cicerone, Ovidio, Virgilio, Seneca e Boezio (così, tanto per essere modesti) in realtà emerge il ruggito feroce dell'antropologica consapevolezza di chi sente di essere un gradino più in alto e può concedersi di osservare con snobismo e superbia quello che un tempo era «il popolo delle taverne e delle suburre» e oggi per la vulgata degli intelligenti è il popolo della televisione appeso al telecomando, un popolo non barbaro ma imbarbarito. Scalfari va letto e in fondo amato perché ci indica, ogni giorno, quali sono le idee da combattere. Le sue.

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