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Quel beduino idealista e provocatore

Gheddafi

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Qualcuno lo chiama beduino senza sapere che essere beduini, nella civiltà araba, è sinonimo di coraggio, solidarietà, rigore morale, giustizia. E lui, ex giovane colonnello, vero leone del deserto, oggi è un saggio beduino, legato alla sua terra e al suo popolo di cui è «al Qaid», la guida, dal 1° settembre 1969. Proprio 41 anni fa, con un colpo di Stato incruento, a Bengasi, centro della sollevazione ma anche in altre città importanti come Tripoli, Tobruk, Beida, Derna e Sebha, il ventisettenne Muammar Gheddafi mise fine alla monarchia di re Idris, il sovrano senusso della Cirenaica, e con la sua Grande Rivoluzione Al Fateh trasformò la Libia in Grande Jamahiria fondata su quattro principi: libertà, giustizia, eguaglianza, prosperità. Dice di se: «Se io fossi al potere sarei già finito da tanto tempo. Il potere l'ho consegnato al popolo libico nel 1977». In effetti, dal punto di vista formale lui non ha oggi alcuna carica, se non quelle onorifiche di «Leader fraterno e Guida della Rivoluzione». Mento prominente e brillanti occhi neri, fissi verso l'orizzonte, in divisa militare o da beduino, Gheddafi, il più giovane capo di Stato del mondo, guardava la sua gente dalle tante foto che campeggiavano in ogni scuola, ufficio o negozio. Intravedevi la sua immagine lungo le strade, negli angoli delle piazze circondate da archi in composta parata, negli spigoli vivi di un'architettura fatta di linee, piani e punti di fuga allineati con la cura meticolosa del razionalismo d'inizio secolo. La sabbia libica era uno specchio in cui noi italiani di passaggio scoprivamo il volto familiare di altri posti davanti al mare. C'è tanto di Sabaudia, tracce non lievi di Latina e delle altre città nuove volute dal Duce e dagli architetti che ne segnarono l'epoca in quelle altre terre al di là del mare dove l'effimero impero mussoliniano lasciò di sé testimonianza importante. Ma nel caldo e desertico Fezzan potevi incontrarlo davvero il «rais», quando meno te lo aspettavi, quando intravedevi in lontananza la lunga fila di Toyota, preceduta dai militari in divisa che, al loro passaggio, ti facevano fermare sul ciglio della strada. La prima volta, nei pressi di Brak (1000 km. da Tripoli) ero diretta verso una zona dove, grazie all'acqua, il deserto diventava una campagna dal verde accecante. Scesi velocemente dal mio pick-up, la carovana rallentò, un soldato si avvicinò per chiedermi dove ero diretta e sentendomi parlare in arabo mi scambiò per un'egiziana. Corse dal colonnello e lui, abbassò il vetro dell'auto e, sorridendo, mi salutò amichevolmente. Lo stesso sorriso con il quale, sempre a Brak, un 7 ottobre (ricorrenza della cacciata degli italiani colonizzatori), mi invitò a stare vicinò alle sue «amazzoni». Gheddafi, come i veri beduini, ha il massimo rispetto delle donne, quelle che oggi dovrebbero fare, perché se ne sente il bisogno, «una rivoluzione femminile nel mondo, costruita su una rivoluzione culturale». I suoi lunghi comizi, ore e ore, nelle piazze o in tv, erano tutti finalizzati a risvegliare il suo popolo, (5 milioni e mezzo tra arabi-berberi e tuareg) a renderlo orgoglioso, indipendente, lavoratore, ricco ma profondamente legato alla terra. Nei supermercati statali libici capitava che a volte mancasse la pasta, a volte le banane, altre i pomodori pelati. Disse una volta a chi lo stava ascoltando: «Quando tutti i libici saranno autosufficienti, ci saranno sempre pasta, banane, pelati».   Nato nel 1942, in una tenda di pelli di capre nel deserto della Sirte, dal giorno che lanciò la sua sfida e il suo sogno, Muammar Gheddafi, il figlio del deserto («il deserto è pulizia, è purezza, è quiete, è una delle grandi testimonianze di Dio. Io non potrei vivere senza il deserto») è sempre stato un provocatore ma anche un irriducibile idealista, il colonnello ma anche lo scrittore delle dune. Un personaggio pieno di fascino, che in un suo libro si descrive così: «Un povero beduino sperduto, che non possiede neppure un certificato di nascita».

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