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Berlusconi e Putin ricandidati

Silvio Berlusconi e Vladimir Putin

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(...) con i cuccioli di orso polare, a sparare con mira perfetta una siringa di anestetico a una tigre siberiana e mettere il collare satellitare a un'alce – il Wall Street Journal ce l'ha presentato ieri nelle vesti di automobilista fai da te, mentre infila la pistola del self service nella sua berlina. Non molto tempo fa lo avevamo osservato pescare a torso nudo sul fiume Yenisei ed arpionare da un gommone, sempre a fini ecologici, una balena nella baia di Olga, al largo della penisola della Kamciatka. In tuta mimetica, in muta artica, con i muscoli in bella vista o semplicemente con la camicia del gitante della domenica, il primo ministro russo sta preparando con grande anticipo e cura mediatica la propria rielezione nel 2012 alla presidenza della Russia, a quel vertice del Cremlino che aveva dovuto lasciare nel maggio 2008 nelle mani tuttora fidate di Dmitrij Medvedev. Questa è anche l'opinione del più influente quotidiano americano, secondo il quale il 57 enne Putin «dimostra di essere ancora saldamente alla guida del suo Paese». Se l'obiettivo verrà centrato (e allo stato ci sono pochi dubbi), l'era Putin, iniziata nel 1999 con le dimissioni di Boris Eltsin, potrà prolungarsi con altri due mandati fino al 2020, magari proseguendo la scambio di ruoli con Medvedev. La campagna in chiave ambientalista del premier russo è come sempre (e come per tutti i potenti del mondo) rivolta all'interno: Putin, che dal giudizio della storia emergerà come uno dei migliori governanti mondiali di questo millennio a dispetto di fatti e opinioni controversi, ha intenzione di presentarsi come un leader forte e giovane, e di modificare la propria immagine da quella di burocrate a personalità moderna e popolare. Del resto tra i grandi paesi solo in Italia l'èlite salottiera pensa che si debbano scegliere i governanti domandandosi che cosa ne penseranno all'estero. E, a proposito di Italia, nel 2013 (o forse anche prima in caso di elezioni anticipate) andrà a scadenza il governo Berlusconi. Allora il Cavaliere avrà 76 anni abbondanti – il compleanno è in settembre – ed è noto che il nostro premier si considera giovanissimo, forse ancora più dell'amico russo. Salvo imprevisti siamo pronti a scommettere che anche lui si ricandiderà, e con altrettanta convinzione dichiariamo fin da ora che si leveranno alti lamenti sulla mancanza di ricambio della nostra classe dirigente, anche nell'area di maggioranza. Del resto se dall'altra parte si pensa a rimettere in pista Romano Prodi, che ha solo tre anni di meno, perché non Berlusconi? Ma a questo punto la questione non è italiana, ma mondiale, e non riguarda l'età anagrafica ma la durata delle leadership. È questo fattore a determinare o meno la stabilità politica, economica e sociale delle grandi aree del mondo. La Cina, per esempio, deve il suo straordinario sviluppo che ne ha fatto la seconda potenza mondiale non solo allo scambio tra libertà economica e partito unico, ma ad un accuratissimo meccanismo di potere che stabilisce con un paio di anni di anticipo chi andrà ad occupare le poltrone di primo segretario e primo ministro. Proviamo ad immaginare il contrario: che cosa sarebbe accaduto non solo nello scacchiere asiatico, ma in tutto il mondo, se un paese come la Cina non avesse esportato stabilità ma disordine e incertezza. Avremmo retto alle crisi finanziarie attuali? Gli Usa sarebbero stati in grado di collocare in mani sicure il loro enorme debito federale? L'Europa avrebbe trovato un bacino alternativo per produrre ed esportare le sue tecnologie? Ovviamente con la Cina, e in parte anche con la Russia, non abbiamo a che fare con democrazie compiute. Eppure chi se ne scandalizza dimentica che entrambe queste potenze siedono fin dalla fondazione nel Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, il totem del politically correct per noi occidentali. Ma la questione della stabilità delle leadership tocca anche gli Usa e l'Europa, le culle della democrazia. Franklin Roosevelt ha guidato gli Stati Uniti per quattro mandati consecutivi, dal 1933 alla sua morte, nel 1945, sconfiggendo prima la Grande Depressione, poi il nazifascismo. Per chiudere definitivamente la Seconda Guerra Mondiale non esitò a decidere il bombardamento atomico del Giappone, anche se poi toccò ad Harry Truman di impartire l'ordine. Un atto che oggi sarebbe giudicato come la peggiore delle barbarie, ma che la storia ha archiviato come gesto supremo di realpolitik. Di fatto Roosevelt inaugurò anche l'era atomica, con ciò che ne è conseguito dopo, gettando i presupposti sia per il boom economico americano sia per la Guerra Fredda. La sua impronta, dunque, si è protratta ben oltre il mandato presidenziale e la vita stessa, fino a Richard Nixon. Le altre "presidenze lunghe" americane sono state di Ronald Reagan, di Bill Clinton e di Bush padre e figlio. E per tutte e tre si può parlare di ere non solo politiche o militari, ma anche economiche e sociali. Al contrario, figure come Ford, Carter e, finora, lo stesso Barack Obama ci appaiono indistinte: qual è stata la loro cifra strategica, la loro impronta sull'economia mondiale? Impossibile dirlo. Gli americani – Paese che noi europei indichiamo spesso come simbolo dell'alternanza politica dimenticando che i congressman possono tenere il seggio a vita – si stanno da tempo ponendo il problema della durata delle leadership. Tanto che lo hanno aggirato scegliendosi delle dinastie: prima i Clinton, poi i Bush, senza dimenticare il sogno (o il mito) dei Kennedy. Otto anni di durata alla Casa Bianca sembravano già pochi quando gli Usa si consideravano gli unici eredi dell'Impero Romano; figuriamoci ora che gli imperi sono diventati almeno tre, con Russia e Cina. Ma in effetti otto anni possono essere davvero brevi per dispiegare programmi che oggi sono molto più complessi di un tempo. Per prendere decisioni davvero strategiche. Gli alti e bassi dell'economia tendono ad avvicinarsi, ma proprio per questo è impossibile giudicare e pianificare sull'arco di un quadriennio o di un quinquennio. La new economy è dilagata e poi scoppiata undici anni fa ed ora sta nuovamente tornando in auge: in questo lasso di tempo alla Casa Bianca si sono alternati in quattro, mentre i vertici ed i padroni di Microsoft, Apple e Google sono sempre gli stessi. L'Europa è passata dalle strizzate d'occhio all'Ulivo mondiale, o continentale, alla rivincita dei conservatori. Non ha però impostato nessuna vera strategia di lungo termine per confrontarsi con le potenze emergenti, e con Russia e Cina, salvo che in tre casi: con Tony Blair in Inghilterra, con i governi tedeschi di qualunque colore fossero, e con Berlusconi in Italia. Quanto all'idea che si potesse davvero realizzare l'unità europea, abbiamo visto come è finita. Con le porte girevoli – e zero credibilità - alla commissione di Bruxelles, e perfino alla Banca centrale di Francoforte.

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