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Il regime usa il terrore per riprendersi il Paese

Carla Bruni

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Dopo averle dato della puttana, il quotidiano iraniano Kayhan ha deciso che gli insulti non sono sufficienti e ieri ha pubblicato un editoriale in cui sostiene che «Carla Bruni merita di morire». Il foglio iraniano non lo specifica, ma dalla lettura si capisce bene che secondo Kayhan anche Carlà, come la povera Sakineh Mohammadi, merita di essere lapidata: «La Bruni ha avuto in passato relazioni illecite con diverse persone e ha provocato il divorzio di Sarkozy con la seconda moglie Cecilia. Il suo passato mostra chiaramente il motivo per il quale questa donna immorale stia dalla parte di una donna iraniana che è stata condannata a morte per adulterio e per complicità nell'omicidio del marito. E, per questo, lei stessa merita di morire». Il fatto scandaloso è che questo turpiloquio demenziale non è apparso su un giornaletto di provincia, ma sul Kayhan, il più «ufficiale» tra i giornali iraniani perché il suo direttore Hossein Shariatmadari, come i suoi predecessori, è stato scelto personalmente dalla Guida Suprema, l'ayatollah Ali Khamenei e dunque la sua linea editoriale (sempre oltranzista, peraltro) può a buon titolo essere considerata quantomeno ufficiosa. Il fatto ancora più scandaloso però, è che a fronte delle ovvie proteste della Francia - che ha però scelto il low profile delle «normali vie diplomatiche», senza pronunciare accuse roboanti - il governo iraniano ha deciso di prendere le distanze dal Kayhan attraverso il funzionario di più basso grado possibile, il portavoce del ministero degli Esteri, Ramin Mehmanparast: «La Repubblica islamica d'Iran non appoggia chi insulta le autorità di altri Paesi e usa parole offensive. Non riteniamo che usare parole indecenti e offensive sia una mossa giusta, spero che i media stiano più attenti. Possono criticare le politiche ostili di altri Paesi, ma devono evitare di usare termini che insultano. Questo non é corretto». Tutti segnali che portano ad una conclusione: i vertici iraniani, Khemenei in prima persona, si rendono conto che la campagna contro la lapidazione di Sakineh Mohammadi morde, anche sul piano interno e temono proprio questo. Da anni, sui giornali, eminenti ayatollah e politici di primo piano nella Repubblica Islamica propongono apertamente la abolizione della lapidazione, con motivazioni di diritto coranico e ora la campagna internazionale li rafforza, rende chiaro all'interno che la loro posizione è condivisa e che i «lapidatori» diffondono invece nel mondo una immagine pessima dell'Iran. Ma questo è inaccettabile per il regime: innanzitutto perché sono i «riformisti» ad attestarsi sulla critica alle lapidazioni e quindi dare loro ragione sul punto è in questi momento considerato inopportuno, e poi perché la ripresa delle lapidazioni (Iran Human Rights sostiene che 7 sono state già eseguite e 14 sono imminenti), fa parte della campagna di vero e proprio Terrore alla Robespierrre, sul piano sociale e dei costumi, con cui il regime intende riprendere il controllo del Paese, dopo le proteste dell'Onda Verde. Da un anno in qua le esecuzioni pubbliche si succedono, per dare all'Iran il segnale di una ortodossia islamica spinta, che è l'asse del consenso che ancora il regime riscuote. In perfetta sintonia con i Talebani i leader sciiti dell'Iran sanno che la difesa del codice familiare più retrivo e oscurantista fa aumentare i consensi in una parte della società musulmana. Di qui le forche, di qui le lapidazioni. Nel segno di una rivendicata, addirittura orgogliosa, barbarie islamica. Vedi gli articoli di Kayhan.

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