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Le elezioni non sono archiviate

Gianfranco Fini e Silvio Berlusconi

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La prospettiva di possibili elezioni anticipate non è stata affatto archiviata. Le dichiarazioni ottimistiche sull'argomento assomigliano più a scongiuri che non ad affermazioni convinte. Sembra che lo sforzo di tutti gli attori politici sia quello di trovare il modo per attribuire la responsabilità dell'interruzione anticipata della legislatura a un capro espiatorio. Naturalmente, ci si augura che così non sia e che la maggioranza, in un qualche modo ricompattata se non addirittura rinforzata, possa proseguire. Tuttavia i segnali che pervengono da più parti, in questo scorcio di fine estate, non sono rassicuranti. Già il fatto stesso che la "missione" di ricomposizione sia stata affidata alla Lega - i cui rapporti con gran parte dell'ex mondo di An (e soprattutto con i finiani) non sono mai stati, quali che ne fossero le ragioni, idilliaci - non sembra di buon auspicio.   E ciò non tanto per la mancanza di capacità diplomatica dell'una o dell'altra parte quanto piuttosto per le differenze culturali e politiche fra i soggetti chiamati al dialogo. E le lungaggini nella formazione del calendario degli incontri parlano chiaro. Eppure il tentativo andava e va fatto, anche per far sì che "posizioni" e "ragioni" politiche possano apparire con nettezza di contorni ai cittadini. La strategia di Berlusconi in fondo è lineare. E ben scelta. Egli mostra di non volere provocare la crisi, ma anzi, pur senza cedere di un punto, di fare tutti gli sforzi possibili per evitarla. Se si pervenisse, grazie alla mediazione della Lega, a un chiarimento che portasse i finiani non soltanto a votare i cinque punti del documento programmatico per la seconda parte della legislatura (il "sì" dovrebbe essere scontato) ma anche a mettere nel cassetto i "distinguo" in tema di giustizia e, in particolare, sul disegno di legge sul progetto breve, il Presidente del Consiglio otterrebbe un successo indiscutibile. Ma un tale scenario equivarrebbe a vanificare l'intera operazione portata avanti da Fini e dai suoi a cominciare dalla costituzione di un gruppo parlamentare autonomo e si risolverebbe nell'ammissione di una vera e propria sconfitta politica. Si tratta di uno scenario, allo stato, inipotizzabile, come appare evidente dal fatto che i finiani più legati al Presidente della Camera accennino, a proposito del ddl sul processo breve, alle perplessità del Presidente della Repubblica e, più in generale, degli ambienti del Quirinale sulla correttezza costituzionale del provvedimento. Tale argomentazione - la chiamata in causa delle presunte convinzioni del Presidente della Repubblica - è indicativa dell'intenzione di non voler giungere a nessun accordo. Ed è, poi, del tutto inopportuna. In primo luogo perché proviene da persone che si sono espresse a favore del provvedimento in sede di voto al Senato e, in secondo luogo, perché, così facendo, si tende ad attribuire al Capo dello Stato una funzione che non è la sua, quella di interferire, in barba al principio della separazione dei poteri, nel processo di formazione delle leggi. Come è ben noto, il Presidente della Repubblica non può esprimere pareri sulla costituzionalità di un provvedimento in itinere e, una volta che gli sia stato sottoposto, può semmai non sottoscriverlo e rinviarlo alle Camere fermo restando il fatto che, qualora le Camere lo riproponessero tale e quale, sarebbe obbligato a firmarlo. Stando così le cose, il richiamo alle "perplessità" del Quirinale sul ddl cui il premier attribuisce la maggiore priorità, ha un significato politico preciso. Quello di far intendere - che la cosa, poi, sia vera o meno, ha poca importanza - che i finiani opererebbero di concerto con gli ambienti del Quirinale e che, di conseguenza, certe loro prese di posizione, anche ostruzionistiche, sarebbero, per così dire, avallate dal Colle. Tutto, dunque, lascia supporre che la frattura della maggioranza verrà confermata. E che la legislatura non avrà vita lunga. E ciò anche nell'ipotesi del recupero di una quota di "dissidenti" da parte di Berlusconi magari con l'aggiunta di qualche altro voto. Si tratterebbe di una ipotesi di corto respiro, utile per far approvare il processo breve, ma con dei risvolti negativi. Darebbe l'impressione del ritorno alla più deteriore prassi di una vecchia politica fondata sulla "compravendita" dei parlamentari, secondo la logica dell'eterno italico trasformismo, e soprattutto non garantirebbe affatto sulla affidabilità politica dei dissidenti recuperati. Ed è quello che Berlusconi non può permettersi. Il consenso di cui gode si fonda, fra l'altro, proprio sul fatto che rappresenti il nuovo.  

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