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Qui le firme continuano ad arrivare: trentacinquemila in due giorni.

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Ilgiudizio è lapidario: deve dimettersi. I lettori spesso sono più severi dei giornalisti. Fini li ha delusi. Stop. La «questione Fini» non è solo indignazione. Non è un processo. Non è una condanna. Questa storia ha a che fare con il sale della politica. La casa di Montecarlo, i favori al «cognato», le scorribande in Rai della ditta Tulliani, mettono in piazza quello che da tempo si sussurrava: Gianfranco ci guarda da miserabili, ma non è come la moglie di Cesare(...). Quell'aria di perenne superiorità morale è andata in frantumi. Questo pensa la destra che chiede le dimissioni di Fini. (...) Quello che sta accadendo non nasce dalla noia balneare di un quotidiano. Il Giornale ha solo fatto chiarezza. C'è, in questa stagione politica, un nodo che non si può ignorare. È lì, evidente, ed è grottesco continuare con questa ipocrisia. Fini e il Pdl navigano in due mari diversi. Non sono alleati. Anzi, si detestano. Questo giorno di mezz'agosto lo dimostra. (...) La maggioranza pensa che Fini sia stato eletto con i loro voti presidente della Camera. Tra quei voti e l'uomo che li ha ricevuti non c'è più un rapporto di fiducia. Il problema è che non si può tornare indietro. La Costituzione e la prassi parlamentare non lo prevedono. Ma l'ambiguità non fa bene a nessuno. Ci sono incroci nella vita in cui è bene lasciarsi da buoni avversari, magari restituendo la poltrona. Solo Fini può decidere se tenersi quei voti o rispedirli al mittente. Ma questa davvero non è politica. È una scelta di coscienza.

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