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Le dimissioni del Cav non servono

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DimitrijMedvedev, presidente della Russia, ha 44 anni e il primo ministro Vladimir Putin ha 57 anni. Il presidente del Consiglio italiano Silvio Berlusconi ha 73 anni, il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha compiuto pochi giorni fa 85 anni, Umberto Bossi ha 69 anni, Romano Prodi sta per compierne 71 anni, Massimo D'Alema ha 61 anni, Pierluigi Bersani sta per toccare quota 59 anni, Giulio Tremonti è vicino ai 63 anni, Gianfranco Fini ha 58 anni, Pier Ferdinando Casini naviga sui 54 anni. Non continuo l'elenco politico-anagrafico per carità di patria, quel che emerge con lampante chiarezza è che se le prime file della politica sono anziane, i loro potenziali successori non sono certo da considerare giovani e in linea con il ricambio generazionale che sta avvenendo nella stanza dei bottoni di tutte le grandi potenze. Se questo giochino biografico lo sviluppiamo a un livello un po' più basso della leadership, il risultato è terrificante. Ricambio Vengo al secondo punto che alimenta il discorso di Pansa: chi deve succedere a Berlusconi? Questa materia non è nella disponibilità né del Cavaliere né dei suoi delfini possibili né dei cosiddetti «poteri forti» in perenne fase di manovra. Il futuro, piaccia o meno, lo decide il corpo elettorale, gli italiani che votano. Nel 1994 diedero la responsabilità del governo, contro tutte le previsioni e i piani che si apparecchiavano nelle stanze dell'establishment, a un imprenditore venuto da Arcore, un self made man che – come tutti gli imprenditori di peso in Italia - aveva solidi legami con la politica, ma aveva dimostrato di «saper fare» e innovare. Sedici anni dopo, una successione a Silvio dovrebbe logicamente passare per le urne e non per una trama di Palazzo giusta o sbagliata che sia. Mettiamo in ogni caso che domani il Cavaliere si stufi, prenda un aereo per le isole Bermuda e decida di mollare gli ormaggi del suo splendido veliero. Che succede? Intanto, l'uscita di scena di Berlusconi dovrebbe soddisfare almeno quattro punti fondamentali per essere davvero utile al Paese e non diventare invece una complicazione se non un dramma politico. Ecco quali sono: 1. forte ricambio della classe dirigente; 2. esordio di giovani di sicuro valore nei posti chiave della vita del Paese; 3. riassetto istituzionale che porti efficienza, trasparenza e responsabilità nella politica; 4. introduzione della meritocrazia al posto della cooptazione. Torniamo, come nel gioco dell'oca, al capitolo precedente, quello sulla «gerontocrazia». Chi resta in campo dopo Silvio? Scorrete i nomi, le date di nascita e ponetevi, cari lettori de Il Tempo, queste semplici domande. Sarà il turno dei giovani? Non mi pare, il cavallo più fresco tra quelli che i bookmaker quotano in pista è Casini, classe 1955, parlamentare dal 1983. Pier è nella stanza dei bottoni da ventisette anni. Ci sarà un forte ricambio della classe dirigente? Se questi restano gli attori in campo, il ricambio è pari a zero e l'unico fatto nuovo è che il Cav non è più il regista della partita politica. Un elemento fortissimo, un vuoto di leadership, ma di per se stesso non sufficiente a far girare la selezione della classe politica in maniera diversa dal passato, venendo addirittura a mancare l'elemento di «imprevedibilità» di Berlusconi nella scelta dei candidati. Si aprirà una stagione di riforme? Difficile ipotizzare un accordo bipartisan sulle nuove regole. L'assenza di un leader vero a sinistra non viene cancellata dall'uscita di Berlusconi, semmai si moltiplicheranno i galli nel pollaio dell'opposizione. Il Paese avrà un'iniezione di meritocrazia? Anche questo fattore ha ben poco a che fare con la fine dell'era berlusconiana. La cooptazione della classe dirigente riguarda non solo il sistema politico, ma gran parte della società italiana, quello che viene chiamato «costume nazionale» o, se si vuole essere impietosi, malcostume. Immagino che Pansa veda Berlusconi come una sorta di «tappo» posto su un vulcano pronto a proiettare in cielo una lava benefica. Io non sono così ottimista. Non penso che l'Italia sia più quella descritta nel Gattopardo, quella del «tutto cambia perché tutto resti come prima», ma la sola presenza-assenza di un uomo forte (e Berlusconi non è Mussolini) non vuol dire che il Paese si avvia a una fase migliore. Outsider Pansa nel suo articolo non cita mai i nomi dei delfini-politici, mentre butta nel mazzo di carte da giocare per il futuro un paio di outsider provenienti dal mondo dell'impresa e dagli apparati tecnocratici che in non pochi casi hanno espresso la guida del governo del nostro Paese: Luca Cordero di Montezemolo (impresa/Confindustria), Emma Marcegaglia (impresa/Confindustria), Mario Draghi (finanza/Bankitalia), Mario Monti (università/euroburocrazia). Il governatore di Bankitalia non è più un giovincello (ha 62 anni) e il suo ruolo sarebbe più quello di un traghettatore-tecnico verso una stagione nuova ancora da costruire; Montezemolo ha sulla carta d'identità lo stesso anno di nascita di Draghi, ha quel che si dice l'allure, si presenta bene, ma essendo da molti anni nelle schedine del totofuturo rischia di essere un dejà vù, un'eterna promessa; Mario Monti è il panchinaro di lusso con un curriculum di grande caratura ma con 67 primavere sulle spalle, la classica riserva della Repubblica; la presidente di Confindustria è giovane (ha 44 anni) e donna, un governo a sua guida sarebbe una novità, ma per ora Emma sembra refrattaria a giocare una partita politica. In ogni caso, visti anche gli outsider, tutte le domande che ci siamo posti sul futuro del Paese restano senza una risposta, una visione post-berlusconiana che dia un senso a un'uscita di scena anticipata del Cav. Il ricambio di una classe politica non avviene con operazioni verticistiche e lo stesso Pdl vivrà o morirà nella misura in cui sarà capace di accompagnare il suo leader su una strada di governo e non di divisione interna, come sta avvenendo con la proliferazione delle correnti azzurre e il fenomeno del finismo. Questo, semmai, è il vero tema sul tappeto politico: uno spappolamento del Pdl con Berlusconi ancora in sella. Scenario da big bang con esiti imprevedibili. Ecco perché mi pare inutile forzare i tempi naturali di conclusione di una straordinaria (in tutti i sensi) storia politica. Berlusconi non deve dimettersi. Guiderà il Paese finché avrà la forza personale e la fiducia degli elettori. La successione non sarà una partita né sua né di chi pensa di farlo saltare anticipatamente. Decideranno gli italiani. Post scriptum: il direttore de Il Tempo ha 42 anni.

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