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Così si fa piazza pulita delle infamie su Forza Italia

Vittorio Mangano, l'ex stalliere della villa di Silvio Berlusconi ad Arcore

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Bastava vedere in televisione ieri la faccia e sentire le dichiarazioni di "stupore" del sostituto procuratore generale Nino Gatto per capire la portata della sconfitta subita nel processo d'appello a Palermo contro il senatore Marcello Dell'Utri. Il quale, dopo una lunghissima e perciò ancora più significativa camera di consiglio, cominciata giovedì scorso, è stato pienamente assolto per i fatti più gravi e carichi di implicazioni politiche che gli erano stati addebitati con il supporto di quel pentito da strapazzo che si è rivelato Gaspare Spatuzza. Egli è stato invece condannato, ma con una pena ridotta rispetto alla sentenza di primo grado e con l'ormai abusata e sempre singolare imputazione di concorso esterno in associazione mafiosa, per i rapporti che avrebbe avuto sino al 1992 con esponenti di Cosa Nostra per tutelare gli interessi della Fininvest minacciati in Sicilia. Ma vi sono buone probabilità che la difesa riesca a vincere in Cassazione anche questa battaglia restituendo a Dell'Utri il ruolo di parte lesa, non di imputato. Con la parte assolutoria della sentenza d'appello di ieri si può tranquillamente dire che è stata cestinata la storia di Forza Italia farneticamento riscritta dagli avversari più feroci di Silvio Berlusconi. La cui avventura politica sarebbe stata sponsorizzata con i buoni uffici di Dell'Utri proprio dalla mafia ricorrendo alle stragi, ideate per aggravare nel 1993 il vuoto politico creato dalle indagini giudiziarie su Tangentopoli, seminare il panico e regalare la vittoria elettorale nel 1994 al Cavaliere. Dal quale la mafia si aspettava, grazie a cervellotici negoziati anch'essi attribuiti alla regia di Dell'Utri, quello che peraltro non ha avuto in tutti gli anni di governo di Berlusconi: una rinuncia o solo l'allentamento della lotta alla malavita organizzata. Che, al contrario, è stata intensificata dai governi guidati dal Cavaliere con le norme sul carcere duro e con la cattura dei latitanti più incalliti e pericolosi. Solo la disinvoltura, per non dire peggio, del solito Antonio Di Pietro poteva ancora rinfacciare ieri al primo governo di Berlusconi come un favore alla mafia l'approvazione nel 1994 del famoso decreto legge predisposto dall'allora ministro della Giustizia Alfredo Biondi per limitare il ricorso alla carcerazione prima dei processi. Di cui si era fatto uno smodato abuso non nella lotta alla mafia, ma nelle indagini su Tangentopoli, con le quali Di Pietro si stava allora guadagnando come magistrato una notorietà poi investita in politica. Egli ci permetterà di rinfrescargli la memoria ricordandogli che quel decreto del 1994 fu prontamente firmato, e condiviso, da un presidente della Repubblica che non poteva essere certamente considerato di manica larga: Oscar Luigi Scalfaro. Che, al contrario, aveva rifiutato la firma l'anno prima ad un decreto legge sulla cosiddetta uscita politica da Tangentopoli predisposto dall'allora guardasigilli Giovanni Conso ed approvato dal primo governo di Giuliano Amato in una lunghissima e tormentata riunione, più volte interrotta anche per consentire che sul testo via via elaborato venissero consultati i consiglieri del capo dello Stato, se non lo stesso Scalfaro. Per quanto firmato dall'allora presidente della Repubblica, che da ex magistrato conosceva bene la materia, quel decreto legge del 1994 si arenò in Parlamento -spiace ricordarlo- per un ripensamento della Lega e del suo anche allora ministro dell'Interno Roberto Maroni. E ciò non perché l'una e l'altro avessero improvvisamente scoperto le finalità filomafiose del provvedimento, come forse vorrebbe far credere Di Pietro, ma perché intimiditi da un proclama televisivo letto davanti alle telecamere proprio dall'allora sostituto procuratore della Repubblica a Milano. "Tonino" aveva minacciato con i suoi colleghi fuochi e fiamme contro quel decreto, considerato nefasto ai metodi d'indagine ambrosiani sulle tangenti ai partiti. Era in gioco l'anomalo primato della magistratura sulla politica.

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