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A Gaza stavolta niente sangue

La nave pacifista Rachel Corrie, intercettata dalla marina militare israeliana sulla rotta per Gaza, scortata nel porto di Ashdod

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Cinque minuti di orologio. Tanto è durato il respingimento della Rachel Corrie da Gaza. Questa volta non ci sono stati scontri, spari, coltellate, violenze e morti. Così, per aver ragione dei 19 attivisti filopalestinesi della piccola nave irlandese - incluso un pugno di ultrasessantenni - e impedirle di perforare il blocco marittimo imposto da Israele alla Striscia di Gaza, è bastata qualche ora di pazienza e un abbordaggio soft. Questo epilogo annunciato non cancella le polemiche, ma fa tuttavia tirare un sospiro di sollievo - a Gerusalemme come nelle cancellerie di mezzo mondo - dopo il sanguinoso blitz notturno di lunedì contro la flottiglia guidata dal traghetto turco Mavi Marmara concluso con un bilancio di 9 morti, decine di feriti, centinaia di fermi temporanei (inclusi 6 italiani), una coda di effetti politici collaterali e di recriminazioni.   Israele l'aveva detto e ripetuto: non si passa. E ha tenuto parola nonostante i timori di un bis. Timori esagerati, vista la diversa composizione e consistenza della spedizione di ieri. Intitolata alla memoria di una giovane pacifista americana uccisa da un ruspa militare israeliana nel 2003, mentre manifestava contro la demolizione di case palestinesi nel sud della Striscia di Gaza, la «Rachel Corrie» è arrivata più vicina della «Flotilla» all'enclave palestinese controllata dal 2007 dagli islamici-radicali di Hamas e sottoposta da allora a embargo. Ma il suo destino era già segnato a diverse decine di miglia dalla meta, quando tre unità della marina israeliana l'hanno intercettata di prima mattina in acque internazionali e costretta a deviare verso Ashdod: il porto a sud di Tel Aviv nel quale era stato offerto all'equipaggio di sbarcare il suo carico di aiuti, sottoporlo alle ispezioni israeliane e lasciarlo trasferire solo dopo - via terra - verso Gaza. Commentando l'operazione Benjamin Netanyahu non ha mancato di rendere omaggio al comportamento della gente della Rachel Corrie. «Oggi (ieri, ndr) abbiamo visto la differenza che passa tra una nave di veri attivisti della pace, con i quali non siamo d'accordo, ma dei quali onoriamo il diritto di esprimere opinioni diverse, e una nave di odio (la Mavi Marmara), organizzata da estremisti violenti e fiancheggiatori del terrorismo», ha detto il premier israeliano, non senza ribadire la volontà di mantenere il blocco navale nei confronti di Gaza, per evitare che si trasformi «in un porto iraniano» nel Mediterraneo. Ma la differenza sostanziale tra lunedì scorso e ieri sta nel fatto che le parole di Netanyahu devono fare i conti col moltiplicarsi delle voci critiche nel mondo. Come quella di Navi Pillay, alto commissario dell'Onu per i Diritti Umani, che ha chiesto ieri semplicemente «la revoca» delle restrizioni israeliane, definendole «illegali». O quella di Mike Hammer, portavoce del Consiglio di Sicurezza della Casa Bianca, il quale - pur riconoscendo il diritto d'Israele di difendersi - ha liquidato come ormai «insostenibile» il blocco così come è.  

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