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Pure Scalfaro difende Silvio

Scalfaro

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Persino l'ex capo dello Stato Oscar Luigi Scalfaro, non sospettabile certamente di simpatie per Silvio Berlusconi ha sentito il dovere di opporsi ai rinnovati e rivoltanti tentativi di coinvolgere il presidente del Consiglio nelle stragi mafiose del 1993. Che, secondo i detrattori del Cavaliere, sarebbero state ideate e realizzate per spianare la strada alla sua avventura politica. Il fatto che ad accreditare in qualche modo una così cervellotica e criminale rappresentazione della storia berlusconiana siano stati in questi giorni anche il procuratore nazionale antimafia Pietro Grasso e l'ex presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, all'epoca di quelle stragi presidente del Consiglio, non ha trattenuto Scalfaro da un dissenso tanto onesto quanto risolutivo. Dico risolutivo sia per il credito di cui egli dispone tra i nemici di Berlusconi sia perché, nel 1993, egli era al Quirinale, dove poteva disporre, anche in veste di ex magistrato, di ex ministro dell'Interno e di ex commissario parlamentare antimafia, di elementi non comuni di conoscenza e di valutazione del fenomeno mafioso. È quindi con una cognizione di fatti e di uomini superiore a quella di Ciampi, suo successore al vertice dello Stato, e di tanti altri improvvisati esperti ed inquirenti, ch'egli ha ieri ammonito i denigratori di Berlusconi che «occorrono risposte documentate, sentenze, verifiche». E lo ha detto procurandosi questa insofferente domanda dell'intervistatore de La Repubblica: «Perché è così restio a ipotizzare zone grigie e regie uniche» dietro i torbidi fatti del 1993? Perché - gli ha pazientemente spiegato Scalfaro - «continuo a pensare che sia compito della magistratura e degli apparati investigativi darci una verità definitiva» e che «sia compito di noi tutti mantenere misura e sangue freddo fino a quando questa verità sarà accertata». No insomma ai soliti e sommari processi mediatici, che s'intentano a volte per sostituire, altre volte per indirizzare i processi giudiziari ai danni di chi ha poi dovuto aspettare undici anni, come nel caso di Giulio Andreotti, o 16, come nel caso di Calogero Mannino, o 17, come è appena accaduto a Rino Formica, per sentirsi riconoscere la propria innocenza, e vederla relegata in qualche pagina interna dei giornali o addirittura ignorata. Questa purtroppo è diventata in Italia la giustizia, rigorosamente al minuscolo, per responsabilità - debbo dire - anche di Scalfaro. Che avrebbe potuto fare di più al Quirinale per impedirne la crescita, ma che almeno adesso mostra segni consolanti di ravvedimento e di preoccupazione: sino a invitare i suoi colleghi d'opposizione, come ha fatto ieri, anche a non cercare la scorciatoia di un processo di mafia a Berlusconi in Parlamento, con qualche sonoro dibattito o commissione d'inchiesta, giusto per intorbidare «una realtà politica che fa acqua» e per «spararsi addosso da una parte e dall'altra». Ben detto, finalmente, signor presidente emerito della Repubblica.  

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