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Roma non ha bisogno di altre tasse

Il ministro dell'Economia Giulio Tremonti

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Nel 2001, quando il centrodestra vinse per la seconda volta le elezioni e stese un credibile programma di legislatura – a differenza del 1994, causa ribaltone della Lega – la prima cosa che fece fu di denunciare il buco di bilancio lasciato dal centrosinistra di Visco, Prodi, D'Alema e Amato. Tutti ricordano un ministro delle Finanze all'epoca ancora sulla rampa di lancio, andare in tv con grafici e lavagna per illustrare “i metodi da gangster” di chi l'aveva preceduto: quel ministro era Giulio Tremonti. Di strada ne hanno fatta Tremonti ed il suo premier, Silvio Berlusconi; ma anche la Lega, che da secessionista-ribaltonista è divenuta una forza istituzionale e affidabile. Ripagata da eccellenti successi elettorali. Da quel lontano 2001, Tremonti è assurto al rango di statista. Se oggi l'Italia è credibile e protagonista nella peggiore crisi economica europea e mondiale, lo si deve anche alla sua dottrina economica e fiscale, che ha saputo smussare gli eccessi del liberismo a favore di quella economia sociale di mercato che è marchio di fabbrica del centrodestra. Ma lo si deve anche alle riforme strutturali che Tremonti e Berlusconi, con i voti della Lega e l'allora ministro del Lavoro Roberto Maroni, seppero attuare nel 2001-2006: fisco, pensioni e mercato del lavoro su tutte. Con questo biglietto da visita il Pdl e la Lega si sono ripresentati agli elettori nel 2008, e hanno stravinto dopo l'infelice biennio del Prodi bis. Che a sua volta si era contraddistinto per due cose, a parte le risse interne: zero impegno sulla sicurezza, e spremitura fiscale. Nulla però avrebbero potuto fare Berlusconi, Maroni e Tremonti nel 2001 se non avessero sterilizzato il deficit ed il debito lasciati dalla sinistra. Le cartolarizzazioni di Tremonti, accompagnate da una fiducia chiesta ai mercati in nome delle riforme strutturali, furono le armi vincenti. Assieme a queste, il ministro stipulò allora il primo patto di stabilità con regioni e comuni, una novità per un Paese diviso e clientelare. Oggi al ministero dell'Economia sanno bene che quel patto il Lazio e Roma l'hanno onorato: secondo lo studio reso noto ieri dalla Cgia di Mestre, che non è certo prosperata sotto il ponentino, tra le cinque regioni che danno allo Stato più di quanto ricevono, il Lazio si colloca al secondo posto con 8,7 miliardi. Dopo la Lombardia (42 miliardi) e ben più avanti di Veneto, Emilia e Piemonte. Se insomma il federalismo si attuasse per incanto domani mattina, il Lazio (e Roma) dovrebbero ricevere, non dare. Questo assieme di cose dovrebbe far riflettere il governo sull'opportunità di chiedere al comune di Roma di rientrare urgentemente dal debito ereditato da 15 anni di giunte di sinistra aumentando le tasse a cittadini ed imprese. Tasse, va ricordato, che tra addizionali Irpef e Irap sono già al livello più alto d'Italia. Gianni Alemanno, che quel debito se lo è ritrovato nel 2008, è in una situazione non dissimile da quella di Tremonti e Berlusconi nel 2001. Il disavanzo complessivo che il sindaco ha ereditato è di 9,571 miliardi, dei quali 2,74 di debiti verso fornitori e 6,83 di puro debito, in parte mutui destinati anche ad opere pubbliche. Assieme a Tremonti, Alemanno ha deciso di separare il debito pregresso dalla gestione ordinaria: diversamente non avrebbe potuto governare Roma neppure per un giorno. A titolo di esempio, non si sarebbero potuti fare il censimento dei nomadi, la ripulitura dei campi che infestavano la Capitale, riportare decoro e sicurezza in città, un successo non solo del Campidoglio ma del governo intero (e della Lega). Esattamente come quel centrodestra del 2001, con le mani libere, potè realizzare le sue riforme. Naturalmente non basta dire che è colpa della sinistra, perché i debiti non si cancellano, tanto meno di questi tempi. Ma questo vale per il Campidoglio così come per il debito sovrano dell'Italia. Tremonti sa benissimo perché il nostro Paese, pur avendo il secondo indebitamento d'Europa dietro la Grecia (fino a ieri, il primo) è riuscito ad uscire dai famigerati Pigs, i paesi “maiali” che oggi identificano Portogallo, Irlanda, Grecia e Spagna: la credibilità internazionale, assieme ad una accorta gestione del bilancio corrente, permette ai Bot e Btp di essere collocati a rendimenti decrescenti e scadenze allungate, come è accaduto giusto ieri. Il macigno del debito, come ama ripetere proprio Tremonti, non può essere raffrontato al deficit e neppure al Pil, perché è un valore statico e storico che fotografa i vizi passati, mentre gli altri due sono dinamici e inquadrano l'esistente. Se all'Italia venisse imposto dall'Unione europea di ridurre immediatamente il suo debito aumentando Irpef ed Irap, il governo cadrebbe in un attimo, e peggio ancora, avremmo la gente in piazza. Roma naturalmente non arriva a tanto, ma il criterio è lo stesso. Ciò che è giusto esigere dai romani, a cominciare dal primo cittadino Alemanno, è un piano credibile di rientro, con paletti precisi. In due anni tra i più difficili della storia, tra crisi globale, terremoto ed emergenze varie, ci risulta che la giunta sia all'opera su questo. I tempi degli “appaltoni” unici sono finiti, quelli degli acquisti a pioggia pure. Qualche cittadino ed elettore mugugna, perché vorrebbe una città con i giardini all'inglese e senza scritte sui muri, periferie meno “africane” (citiamo Berlusconi), ma è l'austerity. Alemanno, che certamente non è perfetto, non si sognerebbe mai di spendere milioni di euro per una nuova Ara Pacis. È un esempio, che però ha la sua rilevanza. Nel 2008 e 2009 Roma ha ricevuto dal governo 500 milioni l'anno, che l'anno prossimo, con il federalismo, verranno tradotti in beni demaniali. Ma terreni e caserme non sono immediatemente monetizzabili, mentre i creditori urgono alle porte, e la città – dove hanno sede il governo, i ministri, il Vaticano e le ambasciate – ha le sue esigenze. Ciò che il sindaco chiede è di rendere strutturali i 500 milioni che in questi due anni lo Stato ha versato a Roma, in riconoscimento degli onori ed oneri di essere la Capitale. Non è un trattamento diverso da quanto la Francia fa per Parigi, l'Inghilterra per Londra, l'Europa intera per Bruxelles. È soprattutto, molto meno rispetto a quegli 8,7 miliardi che Roma e il Lazio danno allo Stato. L'alternativa è – tout court – di chiedere al Campidoglio di aumentare a dismisura le tasse. Ne avremmo lo strangolamento di una città ed una regione che da tempo hanno un Pil in crescita superiore alla media del Paese. Oltre all'ovvio malcontento dei cittadini-elettori, l'Italia intera frenerebbe. Nessuno chiede assistenza o assistenzialismo; solo una domanda: ne vale la pena?

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