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La secessione del Cosa

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Po, Bossi, Calderoli e Cota celebrano il rito dell'ampolla

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Dovevano riunirsi a Fossanova per lanciare l'urlo e spezzare le catene della sottomissione all'Impero. Ma la Pontida del Lazio in 48 ore ha già cambiato luogo di rappresentazione. Tra comunicati-retromarcia e bollettini-corazzati, abbiamo appreso con trepidazione che il rito dell'ampolla laziale avrà una sponda pagana dal nome che è tutto un programma: Cosa, un piccolo fiume che non ha avuto una grande storia. Fino a ieri, perché ora sembra sia giunto il momento che resta scolpito nella storia. Sarà un affluente del Sacco il fiume sacro degli irriducibili, il Po dei secessionisti delle province, guidate dai capipopolo al grido “mai più schiavi di Roma”. Immaginiamo la scena: gli intrepidi prelevano l'acqua, innalzano l'ampolla, hanno gli occhi lucidi mentre guardano uno dei simboli della ribellione: la cabina Enel vicino a Collepardo, prima del bivio per Carano. Indipendenza energetica. Niente nucleare. Ah, momenti di gloria.   Il Pdl nel Lazio offre impagabili momenti di comicità: ha rischiato di perdere le regionali a tavolino e meno male che Silvio c'è e ha tirato fuori Renata Polverini dalla sconfitta certa; a Latina, roccaforte della destra, il Pdl ha messo in scena un'opera da tre soldi e un copione dal titolo "voto anticipato"; a Roma il consiglio comunale è balcanizzato e la giunta al di là del sindaco non esprime un gruppo dirigente adeguato alla sfida della Capitale. Se quel che avviene in alto tra Montecitorio e Palazzo Chigi a fatica riesce ad apparire ammantato di una qualche nobile ragione politica, quando si scende in basso, sul territorio, tutto assume l'aria fumante del Rugantino, dove la politica è data in appalto a figure come "er bullo de Trastevere, sverto co' le parole e cor coltello". Troppi arruffoni e arraffoni. Così in un batter di ciglia un argomento tutt'altro che marginale come il rapporto tra Roma e le province del Lazio è finito per diventare una rappresentazione da Bagaglino ma senza le pupe di contorno. Se temi così seri vengono lasciati marcire, poi il risultato è quel che vediamo. Il polverone sulla Polverini e il danno per Alemanno. Nessuna costruzione, solo distruzione. È stato Il Tempo ad anticipare nei giorni scorsi quel che andava ribollendo nel pentolone laziale. Siamo di fronte a una classe dirigente che si specchia senza arrossire neanche un po' di fronte alle sue occasioni mancate, alle sue omissioni e ai suoi grandi errori ed orrori. Per quanto ancora si dovrà straparlare di Roma Capitale senza risolvere il rapporto che lega la Città Eterna al territorio della Regione? L'Italia si avvia al federalismo fiscale trainata dal Carroccio di Umberto Bossi. I leghisti, piaccia o meno, fanno il loro mestiere: poche chiacchiere e molta sostanza per portare avanti gli interessi dei territori che li esprimono. Ancora l'altro ieri, Luca Zaia, già ministro della Repubblica, ora governatore del Veneto, attaccava Roma per sostenere la candidatura di Venezia alle Olimpiadi. Si può dire la stessa cosa della classe politica di Roma e del Lazio? Chi ha un progetto chiaro su cosa debba essere la Capitale in un sistema federale e quale sia il ruolo delle attuali province? Quali sono i costi? Quali i benefici? Chi vince e chi perde in questa battaglia delle piccole patrie de noantri? Hanno fatto dei convegnoni e invece servono iniziative in Parlamento, buone leggi e una visione del futuro che vada un po' più in là di una legislatura e della propria poltrona con relativa indennità. Bossi insegue il suo progetto da vent'anni e non l'ha mai mollato. Cominciò a discutere di macroregioni con il professor Gianfranco Miglio nei primi anni Novanta e ora governa il Nord e presto avrà il federalismo fiscale su misura. Nel frattempo a Roma va in scena uno spettacolino da osteria. Il Pdl nel Lazio è da rifare prima che sia troppo tardi. Se proprio nessuno in aula ha un'idea originale, un modesto consiglio possiamo darlo: cominci a copiare bene il compitino dei vicini di banco, i leghisti.  

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