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Ma i finiani tagliano le Regioni

Alessandro Campi

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L'articolo 131 della Costituzione lo dice chiaramente: le regioni sono venti delle quali cinque dotate di uno statuto speciale di autonomia. Fino a qui nulla di nuovo. È così da più di 60 anni (unica variante è stata la concessione dell'autonomia del Molise dall'Abruzzo nel 1963) eppure anche su questo argomento i "finiani" hanno da ridire. Venti regioni? Troppe! Allora eccoli affidare alle pagine della neonata Rivista di Politica, un lungo capitolo dal titolo: Quante Italie? Un intervento a firma del professore Stefano B. Galli, membro del comitato di redazione della pubblicazione, che ripercorre la suddivisione territoriale della Penisola dal risorgimento ai nostri giorni. E fino a qui nulla di strano: tredici pagine di accurata analisi storica a partire dai tempi nei quali l'Italia si divideva tra questione Meridionale e Settentrionale fino ad arrivare alla riforma, del 2001, del Titolo V della Costituzione e all'approvazione nel 2009 del federalismo fiscale. Un escursus dettagliato che però, in conclusione, rivela la vera essenza di tutta l'indagine: «L'accorpamento regionale sarà inevitabile». Una considerazione finale che la rivista diretta da Alessandro Campi (lo stesso Campi che ricopre l'incarico di direttore scientifico della Fondazione Farefuturo, quella di cui è presidente è Gianfranco Fini) giustifica in questo modo: «I territori s'impongono come il nuovo luogo privilegiato della società politica. Il percorso verso il federalismo istituzionale e la trasformazione del Senato in una camera di rappresentanza e di tutela degli interessi territoriali sono indisgiungibili dalla razionalizzazione dell'organizzazione amministrativa dello Stato. Un'organizzazione nell'ambito della quale l'accorpamento regionale sarà inevitabile per andare oltre la modesta coesione geografica e politica, culturale e sociale, economica e produttiva, di molte realtà». E da qui l'affondo: «Per fare, altresì le cose seriamente, non "già all'italiana", evitando di trasformare una significativa opportunità di crescita e di sviluppo - anche democratico - in una occasione perduta». Una sorta quindi di appello a portare avanti le tanto attese riforme che il popolo italiano aspetta proprio sin dagli anni precedenti l'Unità. Bene quindi il federalismo («promette più efficienza dello screditato modello centralista», «è più resistente alla corruzione», «da voce alle richieste di autonomia e di autogoverno locale» e «piace alle regioni del Nord, ma può essere d'aiuto anche a quelle del Sud, in cerca di strumenti di riscatto per rimanere agganciate al resto del Paese» scrive Galli citando Marcello Pacini, ex direttore della Fondazione Gianni Agnelli), ma ora si pensi a quello istituzionale. E per realizzarlo al meglio perché non imparare dalla storia d'Italia? I primi riferimenti risalgono addirittura al 1796 quando al concorso organizzato dall'amministrazione franco-lombarda, Quale dei governi liberi meglio conviene alla felicità dell'Italia?, la risposta fu: «Uno Stato di Stati» ovvero suddividere l'Italia dalle tre alle sette statualità. «Nel 1846 - riporta il testo di Galli - sempre nell'ambito del filone confederativo, vennero date alle stampe le due più compiute teorizzazioni delle "tre Italie"» Due progetti che però vennero dimenticati con il sopraggiungere, nel 1861, all'Unità del Paese. Un progetto sul quale lavorò parallelamente anche Camillo Benso di Cavour anche se, nel suo pensiero, ipotizzò la divisione dell'Italia in due grosse realtà macroregionali - da un lato la valle del Po' con la Romagna e le Marche, dall'altro i territori al di là dell'Appennino. Poi fu l'ora di Minghetti che, nel 1861, immaginava sei grandi unità territoriali che legassero provincie vicine non solo territorialmente ma anche culturalemente. Tutto questo fino ad arrivare alla fine del 1947 quando venne votato l'articolo 131 della Costituzione che definiva la divisione dell'Italia in 19 Regioni, diventate venti nel 1963. E poi? Più nulla. Solo proposte rimaste inascoltate come quella dello scienziato della politica Gianfranco Miglio che nel 1975 ipotizzò «tre grandi aree omogenee: il Nord, il Centro e il Sud», e quella presentata nel 1992 della Fondazione Agnelli: «Ridurre l'Italia a 12 regioni eliminando e accorpando quelle con meno di un milione e mezzo di abitanti». Che sia questo quello a cui vorrebbero arrivare i finiani? Chi lo sa! Una cosa è certa, se le cose vanno avanti come sembra, al posto di avere due, tre o sei Italie, si rischia di avere la ventunesima regione: la Ciociaria.

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