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Quando il leader parla con le mani

Gianfranco Fini

FOTO - Un'abitudine tra i politici

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«M'ha menato, ma quante je n'ho dette!», soffiava Rugantino, la faccia tutta tumefatta di sberloni. È l'irriducibilità, molto plautina, del piantagrane. Ti viene sotto, a un centimetro dal naso, e già sa che finirà disintegrato. Ma il suo codice d'onore plebeo gli impedisce di arretrare, di essere deriso dalla sua cricca. E allora sta lì, a prenderle di santa ragione. Per il tracotante quel che conta non è vincere, ma restare lì. Con le guance in fiamme. Oddio, alla direzione Pdl non è andata proprio così, ma quasi. Perché quello del politico è un corpo metafisico. Dentro il doppiopetto ci sta un che di istituzionale, anche quando rappresenta la fazione. Non ci si può toccare o spintonare, come due coatti qualunque fuori dalla sala da biliardo, o come due automobilisti che buttano la civiltà sotto il graffietto di un tamponamento al semaforo. Attorno alla persona del leader c'è uno spazio sacro e inviolabile, un'aura esoterica, un confine oltre il quale non ci si può avventurare, pena il risuonare di ogni allarme democratico e la messa in ridicolo dei contendenti, soprattutto di quello che per primo perde le staffe. Il limite estremo è la parola, l'ammiccamento, il gesto. Il massimo sarebbe la potenza sotto controllo dell'Ivan Drago che sovieticamente minaccia l'incazzoso Rocky Balboa: «Io ti spiezzo in due». Poi come va, va. Se ben scelto, il gesto diventa subito mito. Gli avversari sospirano: «Magari ce li avessero i nostri leader, i coglioni di quello», come sussurrano da giovedì nei circoletti del Pd. Poi, nel tempo, l'intemerata si corroderà in satira, in barzelletta, qualche minorenne la emulerà, perchè "l'ha vista in tv", e la maestra gli metterà una nota sul diario. Ma ne nasceranno gadget, magliette, i cinesi taroccheranno l'immagine, la memoria collettiva lascerà sedimentare l'evento nella sintesi ultima di quel ditino ammonitore, dello sventagliare della mano, della provocazione figurata. «Che fai, me cacci?» è un suicidio glorioso, e chi lo pronuncia si avventura verso la leggenda del perdente, in quella che resterà negli annali come la mancata collisione nelle quote più alte della politica. Che pure, di suo, si nutre di baruffe terrificanti, ma che svaporano presto nella simbologia umorale del segnale rivolto contro avversari disincarnati, massificati. L'altra curva, l'altra bandiera, l'altra squadra. Più o meno quel che accade nello sport, con Totti ad abbassare i pollici, o Di Canio ad alzare l'indice. Ma se non hai un Gianfranco impettito davanti a Silvio, muscolarmente tesi, in tre dimensioni, come fai a scatenare una rissa da derby? A volte, malinconicamente, i politici cercano il corpo a corpo, ma non lo trovano. Fanno comizi e si esaltano eroticamente, come il celodurista Bossi che misura il danno che farà al melone del nemico. O giocano e basta: il Cavaliere che fa le corna (il modello era Leone presidente) al summit internazionale pare un ragazzino nella foto di classe, e sarebbe una gag innocente, se non gli ribollisse sempre il sangue contro le lobby italiche che vorrebberlo fare a pezzetti. C'è da capirlo, però: va in Europa e mentre scrive gli appunti un premier lussemburghese qualsiasi - Junker - gli fa "pat pat" sulla pelata, oltraggiando la testa come neanche una palla da basket. Ovvio che il Nostro si stranisce, e ne ha ben donde. E non mette conto parlare di quel che accade in Parlamento, dove a volte la zuffa sarebbe da codice penale: basterebbe una leggina ad hoc. Roba da pendagli da forca: sarà per questo che nel '93 il leghista Leoni Orsenigo si ritrovò ad agitare un cappio in piena Montecitorio. Ci sono anche spunti per i navigatori dell'inconscio: il dna socialista di Sacconi si rivelò in Aula, due anni fa, quando si tolse una scarpa e la batté sullo scranno, evocando il Kruscev di buona memoria. Fin lì sono dei bignamini di Storia. Ma attenzione: il bullismo a Palazzo rischia di diventare una piaga sociale. Occhio: i bambini vi guardano.

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