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Quant'è vecchio il Pd

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Massimo D'Alema

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Scuote la testa Sandra Zampa, deputata del Pd nota anche per essere la portavoce di Romano Prodi: «Bisogna accelerare, accelerare il processo di rinnovamento», ripete, in piedi, nel bel mezzo del Transatlantico. E già, nel quartier generale del partito di Bersani, continuano a ripeterselo da qualche giorno. Il punto è che anche al Pd se ne sono resi conti: sono sedici anni che Silvio Berlusconi si presenta alle elezioni e ogni volta sembra sempre la prima. Sembra sempre lui la novità, la proposta più fresca, quello con il sorriso sulle labbra. La sinistra no. Si presenta sempre con quelle facce smunte, arrabbiate, incazzate, un po' tristi. La sconfitta, oltre che di voti, è anche una questione di volti perché la politica, che piaccia o no, è diventata anch'essa come un prodotto nel mercato televisivo. E il Pd continua a mandare avanti un gruppo dirigente che già sembrava consumato venti anni fa. Prendi per esempio Livia Turco. A questa donna di rara intelligenza, Guido Quaranta dedicò un intero capitolo nel libro «Il chi è dei post-comunisti» (Rizzoli). Titolo eloquente: «Si chiama turco e parla ostrogoto». Era il 1991, diciannove anni fa: la Turco era già uno dei big del Pci che si trasformava in Pds. Quaranta riportò un intero brano di un'intervista rilasciata poco prima all'Unità sul futuro del partito per gli anni Novanta: «Penso a un partito - furono le parole della Turco - a un partito a rete, alimentato da un movimento di immersione e di ascolto della società (che va sollecitata all'organizzazione, a esprimere conflittualità concrete) e da un movimento di emersione attraverso il quale le parzialità producono sintesi politiche, progetti di trasformazione, pensiero forte. Vedo un partito che fa politica organizzandosi su grandi temi, attraverso associazioni e federazioni di interessi, fortemente radicato sul territorio, agile e capillare. Ma non vorrei si pensasse a una struttura debole, all'atomizzazione del conflitto perché io intendo il contrario. Io intendo, infatti, un partito che, pur rinunciando a essere totalità, sollecita altre parzialità a produrre un programma di trasformazione generale, cioé non rinuncia affatto alla peculiarità del suo ruolo». Fin qui la Livia di allora, l'autore del libro sentenziò: «Ho provato a rileggere queste righe diverse volte. Ma, all'oscuro di qualsiasi nozione di ermeneutica, alla fine mi sono arreso». E lo stesso senso di resa l'hanno provato alcuni radicali quando, nel 2010, l'hanno vista comparire in varie trasmissioni televisive e hanno pensato a un segnale preciso del Pd: vogliono perdere. In alternativa, giravi i canali e ti potevi imbattere in un elegante Piero Fassino. Era ai cancelli della Fiat nel 1980 con Enrico Berlinguer. Sette anni dopo è capo dell'organizzazione del Pci, il settore più importante di Botteghe Oscure. Oppure un sempre fascinoso Massimo D'Alema, giovane promessa agli occhi di Palmiro Togliatti nel 1962: quando era alla guida dei giovani comunisti sembrava già vecchio, accadeva quaranta anni fa. Sono ancora tutti lì. Uno pensa: e vabbè, so' i soliti comunisti. Macché, i democristiani sono la stessa cosa. Impera dal piccolo schermo Rosy Bindi. Divenne eurodeputato nel 1989 con il sostegno di Andreotti e Pomicino. Non si tratta solo di una questione di facce. Bensì soprattutto di linguaggi. «I nostri sembrano venire dall'altro secolo - ammette un senatore del Pd sotto giuramento di mantenere l'anonimato -. È come se il Pdl si presentasse in tv con le facce di Forlani, Nicolazzi, Martinazzoli e Formica». Poi c'è la questione del messaggio confuso: «Alle volte sembriamo una marmellata - sentenzia Antonio Boccuzzi, giovane deputato democratico di Torino -. In Piemonte c'erano il lista i No-Tav e i Sì-Tav, i cattolici e gli anticlericali». Infine, una classe dirigente scollegata dalla realtà. Ammette Nico Stumpo, capo dell'organizzazione del Pd: «Domenica mattina ho chiamato Agazio (Loiero, ndr). Gli ho chiesto: come va? E lui tutto pimpante: "Tranquillo, vinciamo di otto punti, forse anche dieci"». Il governatore uscente ha perso di trenta. Guardi dall'altra parte e li trovi tutti giovani. Stefano Caldoro sembrava un neofita della politica: fu deputato nel 1992, aveva soli trentadue anni ma già sedeva in Parlamento, ma s'è presentato sobrio e sorridente. Roberto Cota un ragazzino. Luca Zaia, uno che ti dà appuntamento per un'intervista all'area di servizio, parla come mangia. Allegri come Peppe Scopelliti. Leggeri come Anna Maria Bernini, che ha visto il suo avversario Vasco Errani nella rossa Emilia crollare di dieci punti e passa. Nel momento più disperato della sua campagna elettorale, subito dopo l'esclusione del Pdl, Renata Polverini è salita sul palco e s'è messa a cantare Battisti: «Come può uno scoglio arginare il mare...». Scrive Giampaolo Pansa su Libero, dove preconizza l'apertura di una nuova fase politica: «Un anticipo di Terza Repubblica lo offrono le figure di alcuni governatori vincenti. Sono quasi tutti personaggi nuovi rispetto alla Seconda. Lo è persino Nichi Vendola, anche se sta in campo da anni». Insomma, anche la sinistra può sembrare giovane o almeno fresca, aperta alle novità anche quando non lo è. Ma è una sinistra che non è il Pd. Lì tutti fermi come mummie imbalsamate. Immobili, non disposti a spostarsi nemmeno di un millimetro, nel timore che venga giù tutto. Sempre con le stesse sfide al loro interno. Veltroni che gode delle sconfitte del dalemiano Bersani. E Bersani che fa sapere come rispetto all'anno scorso hanno perso voti ma si sono accorciate le distanze con il centrodestra. Quando segretario era il veltroniano Dario Franceschini. Si parlano tra loro. E più si parlano tra loro più i loro elettori non li capiscono.  

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