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Milano impari da Roma a diventare città moderna

Una statuetta del Duomo

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Alla vigilia delle scorse elezioni per la provincia di Milano – si era nel giungo scorso – Berlusconi pronunciò una frase che oggi pare più che mai preveggente: «Non è accettabile che in alcune parti di Milano ci sia un numero di presenze non italiane per cui non sembra di essere in una città italiana o europea, ma in una città africana. Questo non lo accettiamo». Come sempre in questi casi, contro il presidente del Consiglio si scatenò una ridda di polemiche. Tutti i giornali titolarono con una truce semplificazione: «Berlusconi: Milano città africana». E per giorni, dalla Curia Milanese, giù giù fino all'ultimo parlamentare d'opposizione, piovvero accuse di razzismo e d'insania.   Piero Fassino, anche lui impegnato in campagna elettorale disse: «Berlusconi non perde mai il vizio di dire cose stravaganti e sconcertanti». Anche il sindaco Moratti se la prese non poco e così, per il solito quieto vivere, Berlusconi fece una mezza marcia indietro. Poi siccome la realtà supera sempre la politica di buon passo ecco che oggi, dopo i fatti di via Padova, perfino quella semplice constatazione oggi sembra inadeguata. Così il compassato Corriere della Sera può pubblicare in prima pagina un pensoso editoriale dal titolo: «Se gli stranieri siamo noi», che dice in sostanza la stessa cosa e nessuno azzarda più un fiato. Il fatto però dice anche qualcosa di più e rivela una caratteristica di Milano che sta alla radice della sua crisi attuale. Roma è rotta tutte le critiche, le metabolizza, le filtra e alla fine sa anche trarne il lato positivo. Milano ha perso l'intelligenza e la prontezza del guardarsi allo specchio: davanti alle polemiche si rinchiude nello sdegno e nel rifiuto, sente leso quel residuo di maestà di cui ancora s'ammanta senza vederne strappi e toppe. La bella fase della Milano riformista, quella di Paolo Grassi, di Giorgio Strehler, di Carlo Fontana, di Cavallari e Ostellino al Corriere, ma anche di Craxi e di Tognoli, era anche un po' questo: non assenza di errori, ma capacità di riconoscerli e un progetto politico e culturale per superarli. Oggi Milano sembra vittima di una perdita verticale di autostima e di un azzeramento della sua capacità di reazione. C'è in questo un fondo di snobismo «fin de race», l'incapacità o la pigrizia di vedere il proprio passato e il proprio futuro. Al contrario, Roma mantiene vivo un rapporto con la tradizione — in questo non è estranea la tanto vituperata presenza della Chiesa — e grazie ad una certa dose di populismo visionario, abbozza una qualche idea di sviluppo. Lo aveva notato qualche mese fa il Financial Times quando parlò di Milano come della «Cenerentola d'Europa», superata, in termini di progettualità, non solo dalle grandi capitali come Londra o Parigi, ma anche da città come Francoforte o Lione. Andrebbe ripreso in mano in questi giorni in cui la ex capitale morale è attanagliata tra corruzione e violenza etnica, un bel libro di Marco Alfieri, giornalista del Sole 24 Ore, «La Peste di Milano». Il titolo porta echi manzoniani, ma si tratta di una impietosa e attualissima inchiesta giornalisitica dove si racconta di come Milano abbia perso se stessa nelle secche di un capitalismo oligarchigo, tra lotte di potere come quelle che frenano l'Expo 2015, mancata integrazione, perdita di spinta creativa e la criminalità organizzata che s'acquatta nelle sue tante zone d'ombra. Avevamo invidiato il «vento del nord» che sembrava pronto a gonfiare le vele di un nuovo sviluppo e spazzare via le accidie e le cattive abitudini di Roma ladrona. Se si tratta di questo, aridatece er Ponentino.    

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