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Ciancimino jr è stato usato In dieci anni nessuno ha fatto niente per far parlare il boss Vito sul mandante

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GiancarloCaselli e i suoi sostituti ricostruiscono gli ultimi vent'anni di storia d'Italia», in pratica l'atto d'accusa che doveva servire a processare Giulio Andreotti e che è finito al macero già da molto tempo, molto prima che Andreotti brindasse, come ha fatto l'altro ieri, ai suoi 91 anni sibilando: «Ce l'ho fatta». In effetti i titoli dei giornali che ne hanno dato notizia sono gli stessi di quattordici anni fa, con il nome di Massimo Ciancimino al posto di quelli di Caselli e dei suoi sostituti: «Ciancimino jr riscrive la storia d'Italia...Nei verbali depositati al processo Mori c'è di tutto: la cattura di Riina, l'omicidio Mattarella e persino la strage di Ustica...Nel covo di Riina carte da far crollare l'Italia...I verbali di Ciancimino...Ciancimino jr.rivela ai pm di Palermo...Dalle carte di Ciancimino jr. nuove accuse...I 22 verbali del figlio dell'ex sindaco ripercorrono i delitti degli anni '80 e arrivano a Moro...Il ruolo dei servizi segreti...». Il figlio finge di riportare parole e opinioni e carte del padre, cerca di farsi ventriloquo del padre morto, che di lui non si fidava e niente gli diceva e lo legava con una catena sul letto, in effetti si fa ventriloquo dei pm delle procure, non fa che rispondere alle loro domande, dicendo sempre di sì. Questo documento fu fatto avere da Dell'Utri a Provenzano e Provenzano lo fece avere a suo padre?, gli domanda il pubblico ministero. E il giovane conferma: «Sì». La storia dei rapporti tra le procure e il figlio di Vito Ciancimino è un classico dell'agenda dei professionisti dell'antimafia. Vito Ciancimino, il «corleonese», l'ex sindaco del sacco di Palermo, il primo demoscristiano finito in galera per mafia, muore di morte naturale nel suo letto, nella sua bella casa romana di via San Sebastianello alle pendici di Trinità dei Monti, tra il Pincio e Piazza di Spagna, il 19 novembre del 2002. Quello stesso giorno, il cadavere ancora caldo del padre, la procura di Palermo notifica al figlio Massimo l'avviso di reato per associazione maffiosa e gli chiede conto del «tesoro» del padre. Che Vito Ciancimino avesse messo da parte un bel po' di «piccioli» guadagnati malamente e «ammucciati» con destrezza, anche all'estero, era scontato, e anche se nemmeno Giovanni Falcone, che lo aveva arrestato, era riuscito a metterci sopra le mani, Vito Ciancimino non ne faceva mistero, e anzi se ne vantava e persino davanti ai giudici: «Signor pubblico ministero - disse in una famosa udienza del suo processo - nell'arco della mia vita ho guadagnato somme più del doppio di quelle che mi sono state sequestrate. Se ho conti all'estero mi chiede? Ma perchè dovrei rispondere, per farmi sequestrare il resto?» Era il 1991, e dopo di allora nessuno ha più chiesto conto a Vito Ciancimino del suo tesoro. Dal 1991 al novembre del 2002, quando è morto, per più di dieci anni (ma era stato già arrestato nel 1980, ventidue anni prima di morire) Vito Ciancimino aveva vissuto prima in galera, poi al soggiorno obbligato, poi di nuovo in galera, infine a casa sua, e sempre sorvegliato speciale, e interrogato di continuo e chiamato a rispondere di tutto e di niente, ma dei piccioli non gli aveva più chiesto conto nessuno. Per cercare il suo tesoro, i professionisti dell'antimafia hanno aspettato che Vito Ciancimino morisse, e un attimo dopo hanno incriminato il figlio: «Non mi hanno nemmeno dato il tempo di seppellirlo - protestò Massimo Ciancimino - gli hanno fatto l'autopsia e me lo hanno restituito cucito in un sacco di juta. L'ho accompagnato al cimitero che aveva già l'avviso di reato in tasca». Nonostante avessero in mano da anni dichiarazioni di «pentiti» che lo coinvolgevano negli affari di suo padre, hanno aspettato che suo padre morisse per contestargli le accuse e per incriminarlo. Perchè? Perchè Vito Ciancimino era «ingombrante» e custodiva ben altri segreti, ma di quelli che i professionisti dell'antimafia non volevano sentire, non ne tennero il minimo conto Caselli e i pm che lo interrogarono in carcere, non lo vollero nemmeno sentire quelli della Commissione parlamentare antimafia presieduta da Luciano Violante: «C'è un movente occulto nell'omicidio di Salvo Lima - ha lasciato scritto Vito Ciancimino - un movente più prettamente politico che trascende gli interessi di Cosa Nostra e converge con essi. Sono certo che vi era qualcuno particolarmente ostile alla candidatura di Giulio Andreotti alla Presidenza della Repubblica, si tratta di colui che io penso potrebbe essere stato un architetto del disegno politico che tramite l'omicidio di Salvo Lima e soprattutto le modalità eclatanti dell'uccisione di Giovanni Falcone aveva come obiettivo di far tremare l'Italia e di sconvolgere il Parlamento e di sbarrare la strada a Andreotti per poi processarlo. Io ho in testa il nome di questo architetto...». Per dieci anni nessuno ha fatto niente per far parlare Vito Ciancimino e fargli pronunciare quel nome. E parallelamente nessuno gli ha più chiesto conto del suo «tesoro», come se avessero voluto dirgli: goditi i tuoi piccioli e dimenticati dei tuoi segreti. E Vito Ciancimino si è tenuto i piccioli e i segreti, il suo vero tesoro. Finchè è morto. Solo a quel punto, e immediatamente, ne hanno chiesto conto al figlio. Ma con uno scopo ben preciso, che tutto è meno che quello di incriminarlo seriamente e di portargli via i piccioli ereditati dal padre. Lo dimostra, se non altro, il fatto che il reato contestato a Massimo Ciancimino è stato mano a mano derubricato, hanno cominciato con il contestargli il 416 bis e l'associazione mafiosa, poi l'hanno derubricata nell'accusa di riciclaggio, sono discesi passo passo ad accusarlo di «reimpiego di soldi sospetti» e alla fine solo di «fittizia intestazione di beni». Dopo tutta una serie di intercettazioini, perquisizioni e sequestri, hanno trovato un testamento di tre righe del padre che non dice niente del dove e del quanto dei piccioli e una scrittura privata, gli hanno sequestrato un appartamentino a Roma, un'automobile sportiva e una barca. Lo hanno arrestato soltanto nel giugno del 2006, quasi quattro anni dopo la morte del padre e il primo avviso di reato, lo hanno processato e condannato nel marzo del 2007 a 5 anni e otto mesi in primo grado, hanno cominciato a verbalizzare gli interrogatori del «testimonio-quasi pentito» nell'aprile del 2008, gli hanno ridotto la pena in appello nel dicembre scorso a tre anni e quattro mesi, dopo che Massimo Ciancimino ha «rivelato» non i veri segreti del padre, quelli che il padre aveva cercato invano di rivelare finchè era rimasto in vita, ma ha soltanto riciclato, attribuendoli alle confidenze del padre, i teoremi della «vera storia d'Italia» scritta da Caselli e dai suoi sostituti, trasferendone la responsabilità da Andreotti e Lima a Silvio Berlusconi e Marcello Dell'Utri. Con una sola novità: non c'è più Andreotti che va a Palermo a baciare Totò Riina, anche perchè Riina è ormai in galera, ma c'è Marcello Dell'Utri che per conto di Silvio Berlusconi bacia Bernardo Provenzano.

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