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Costituzione e false remore

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Non si dica ch'io voglia cercare a tutti i costi "il pelo nell'uovo". È giusto, invece, rilevare, specie ora che dovrebbe aprirsi una nuova stagione riformista, che l'unica nota dissonante dell'apprezzabile parte sulle riforme del discorso di fine anno del Capo dello Stato ha riguardato il presunto divieto di modificare qualsiasi disposizione della Parte I della Costituzione. Il fatto può essere denunciato perché l'errore che si compie sostenendo l'esistenza di tale supposto divieto è imputabile alla parte maggioritaria dei professori di diritto costituzionale e si può comprendere la difficoltà del Quirinale a non tenerne conto. Il fatto che tanti (se non troppi) "intellettuali" dicano inopinatamente la stessa cosa, è già un segnale che dovrebbe indurre in sospetto. E, in effetti, se si guarda con attenzione ci si avvede che essi sono tutti schierati contro il governo del centrodestra e mossi da spinte politiche, non da ragioni scientifiche. Tanto più che, incoraggiati da tanta compagnia, essi si sentono autorizzati a spararle grosse, ma veramente grosse. Basti pensare che fino a qualche anno fa la dottrina era unanime nell'affermare che al potere di revisione costituzionale si potesse opporre, oltre al divieto di modificare la forma repubblicana, solo il limite di alcuni super-principi, caratterizzanti lo Stato democratico. Ora, da quando è arrivato al governo il nuovo centrodestra, ecco che sono sorti divieti come margherite su di un prato in primavera. Qualsivoglia disposizione, anche non di principio, anzi, l'intera Parte I, cioè fino all'articolo 54 Cost., è divenuta intoccabile. Eppure tale Parte è composta dalle concrete disposizioni dettate nel 1947 per fare crescere la società italiana (nei suoi rapporti politici, in quelli sociali e in quelli economici), dando sostanza ai principi cardinali dettati per lo più nei primissimi articoli della Carta. Si tratta di una parte pregevole ma storicamente datata; a fianco di veri e propri principi, essa contiene le regole specifiche che hanno consentito al Paese di uscire dallo sfascio causato da vent'anni di fascismo, dalla sconfitta bellica e dalla guerra civile. Alcune devono essere perciò aggiornate, specie nel campo dei rapporti economici, proprio per attuare nella realtà odierna gli stessi principi generali. È assurdo difendere norme che prevedono la programmazione economica, la proprietà pubblica delle fonti di energia, un forte intervento dello Stato nell'economia, ma anche disposizioni sulla libertà che appaiono chiaramente incomplete alla luce dell'evoluzione sociale e dei progressi della scienza. Farlo, significherebbe inchiodare la Costituzione agli anni quaranta come se l'Italia non fosse mutata e il mondo neppure. Ma ciò che evidenzia ancor più l'inesistenza del divieto, è il fatto che nessuno lo ha eccepito quando siamo entrati nella Cee e abbiamo sovvertito le disposizioni che non davano la priorità alla concorrenza e al libero mercato, quando si è deciso di abolire il servizio militare obbligatorio o la pena di morte nel nelle leggi militari di guerra e così via. Eppure in tal modo sono state modificate disposizioni della Parte I della Costituzione. Con lo pseudo federalismo del 2005 la sinistra ha perfino sovvertito un articolo (il quinto) dei "Principi fondamentali"! Il fatto è che il centrodestra ha rilevato la necessità di ritoccare alcune disposizioni sull'economia per affrontare le sfide europea e globale. Ma, anche facendo solo questo, esso potrebbe mettere in gioco l'agglomerato dei poteri forti (per fortuna sempre meno legati al centrosinistra) che condiziona l'efficienza e la produttività del sistema Italia. E allora si gioca la carta del "al lupo, al lupo", facendo temere chissà quali sconquassi. È il solito giochetto dal quale sarebbe bene distaccarsi, anche chiarendo che, se è vero che le grandi riforme sui principi vanno fatte con larghe intese, è paralizzante pretendere lo stesso per modifiche minori che devono comunque essere fatte, pena il declassamento del Paese.

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