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Barack e una scelta difficile da digerire

Barack Obama sale sull'Air Force One e lascia Singapore al termine del vertice dell'Apec

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Segni evidenti, e anche qualche semplice ammiccamento. Quando si vive di pubblico, di vita pubblica, bisogna imparare a decrittare entrambi. Ma al presidente Obama ieri sarà bastata solo qualche frazione di secondo per avere la conferma, che peraltro non gli serviva, che la sua decisione sull'Afghanistan sarà un difficile boccone politico da far ingoiare al suo elettorato, al mondo dei democratici, ai tanti che speravano che con Bush si sarebbe chiusa la fase delle guerre e delle decine di migliaia di americani al fronte.   Segni e ammiccamenti, dicevamo. Come il fatto che, ancora alcune ore prima di presentarsi a Westpoint e davanti alle telecamere di tutte le tv americane, Barak Obama aveva incassato il commento ammirato di due tra le voci più simboliche e rappresentative dell'amministrazione di George W. Bush: Dan Senor e Carl Rove. Non due personaggi qualunque. Dan Senor era stato il portavoce americano in Iraq negli anni bollenti del governo di transizione, delle armi di distruzione di massa mai trovate, dell'impossibile narrazione pubblica di una guerra che nessuno aveva voluto e di un dopoguerra oggettivamente catastrofico. E lui era lì davanti alle telecamere, ogni mattina, con l'aria del bravo scolaretto un po' simile a Clark Kent prima di diventare Superman, a dover spiegare al mondo quanto tutto quel caos avesse una sua ragion d'essere. Bene. Proprio lui ieri pomeriggio ha commentato la scelta di Obama in modo inequivocabile: «mi sembra un'ottima decisione e mi congratulo con lui..certo che se qualcuno mi avesse detto che questa amministrazione nel suo primo anno avrebbe raddoppiato la nostra presenza militare in Afghanistan non ci avrei creduto.. soprattutto senza ridurre significativamente quella in Iraq». Si tratta probabilmente di una tipologia di congratulazioni di cui probabilmente il presidente farebbe volentieri a meno, ancor più se solo poche ore prima dal campo repubblicano si era già levata in favore di Obama la voce di Carl Rove. Sì proprio quel Carl Rove consigliere di Bush, l'uomo delle vittorie elettorali e degli scandali sulle spie per vendere meglio la guerra in Iraq, proprio lui ieri mattina al Today Show sulla NBC ha detto che l'invio di inviare 30 mila uomini è un vero e proprio surge (come quello fatto all'epoca di bush in Iraq) e che se il presidente lo farà lui sarà il primo ad alzarsi in piedi ed applaudirlo. Ecco è proprio quel genere di applausi che probabilmente oggi il presidente Obama eviterebbe perché sono proprio l'emblema di quel consenso che sta trasformando la «guerra di necessità» in Afghanistan in un macigno sulle spalle della sua amministrazione. Quel tipo di consensi fintamente amichevoli che lo spinge a stare un'ora in videoconferenza con Karzai chiedendo rassicurazioni precise sulla gestione politica dell'Afghanistan e a promettere che in tre anni gli americani e gli 8 alleati cominceranno ad andarsene da lì. Una exit strategy che viene promessa il giorno in cui si stanno inviando i soldati. Una promessa che anche se sincera dovrà fare i conti con la realtà. Prima di tutto l'inverno afgano cominciato e 30 mila uomini da portare di là dall'oceano. Sperando almeno che sia chiaro che cosa sono partiti a fare. Almeno questa volta. Più di otto anni dopo il giorno che tutto è cominciato.  

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