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In Europa il Pd non conta niente

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Massimo D'Alema

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È vero che i Democratici non hanno mai aderito, ma fa riflettere che, visitando il sito internet del Partito socialista europeo non si trovi traccia del Pd. Nello spazio riservato ai «membri», infatti, sotto la voce Italia, ci sono i Socialisti di Riccardo Nencini e i gloriosi, ma scomparsi, Ds guidati da Piero Fassino. Tra l'altro il risultato elettorale attribuito alle due formazioni è quello delle ultime politiche (cui si presentò il Pd ndr) tanto che ai Ds, con molta generosità, vengono assegnati anche i voti dell'Idv per un complessivo 37,6%. Insomma, per i socialisti europei, il Pd non esiste. E forse basterebbe questo, ancor prima della secca bocciatura alla candidatura di Massimo D'Alema, per capire il peso dei democratici in Europa. Il fatto è che dopo aver incassato il contentino del cambio di nome del gruppo (da semplici Socialisti a Alleanza Progressista di Socialisti e Democratici) il Pd è tecnicamente scomparso. Fagocitato. Certo, ha ottenuto un vicepresidente del Parlamento europeo (Gianni Pittella), un vicepresidente del gruppo (Gianluca Susta) e un presidente della commissione Agricoltura (Paolo De Castro). Ma lo stesso bottino contano i socialisti spagnoli, quelli inglesi e i tedeschi. E anche gli slovacchi, in fondo, hanno conquistato due poltrone. Da non dimenticare infine Piero Fassino che veste i panni di inviato speciale della Ue per la Birmania. Incarico sicuramente prestigioso, ma che non sembra pesare moltissimo. E la memoria vola veloce a Romano Prodi che resta la maggiore espressione del centrosinistra in Europa negli ultimi 15 anni. Una riflessione, poi, la merita il fatto che, su tre poltrone ottenute dal Pd, ben due siano andate a dalemiani (De Castro e Pittella). Il che fa sorgere spontanea una domanda: ma se D'Alema è tenuto in così gran considerazione perché non l'hanno candidato? Chi si occupa di questioni europee all'interno del partito si limita a sottolineare che il lìder Maximo ha pagato la mancata candidatura di Tony Blair. Senza presidente dell'Unione, Gordon Brown ha chiesto e ottenuto un'altra poltrona di peso. Compensanzione necessaria per la socialista Inghilterra. Ma al di là delle considerazioni geopolitiche una cosa è indubbia: il Pd che doveva rappresentare una novità nella grande famiglia socialista europea, una ventata di cambiamento, è completamente fuori dai giochi. Basterebbe prendere ad esempio ciò che è accaduto a settembre sulla riconferma di Miguel Barroso. I 21 eurodeputati democratici, contrari alla nomina, si sono allineati alla delegazione socialista optando per l'astensione. E il giorno dopo l'ex quotidiano della Margherita Europa pubblicava un editoriale dal titolo «Ma che ci sta a fare il Pd in Europa?» in cui, tra l'altro, scriveva: «L'astensione è servita a tenere unito il gruppo Asde e soprattutto a tenere aperta a livello di governi la contrattazione sulle deleghe nella seconda commissione Barroso. Una partita che riguarderà i socialisti che governano e contano non certo il Pd». L'articolo aprì un piccolo dibattito con una lettera dell'eurodeputato democratico Luigi Berlinguer e un articolo di Gianluca Susta. «Nell'Asde - scriveva il primo - siamo una sola delegazione nazionale democratica sulle 27 totali (cioè con altri 26 partiti socialisti)». Evidente ammissione di una difficoltà a far valere le proprie posizioni. Ancora più netto Susta: «Il Pd è la novità e la novità richiede discontinuità e noi, finora, non abbiamo segnato discontinuità e quando qualcuno ci ha provato ha trovato o l'ostracismo di Schulz o il dissenso della maggioranza dei colleghi». Se lo dice il vicepresidente dell'Asde, il Pd può mettersi l'anima in pace.

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