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Santoro manda in onda un "processo" Per accostare il premier ai mafiosi

Michele Santoro

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Santoro ha un problema: scegliere il prossimo kolossal da mandare in onda. Dopo «Sesso bugie e videotape» e la saga completa del «Padrino», davvero non si capisce dove possa andare a parare per sostenere l'audience di «Annozero».   Intendiamoci: stavolta il clima della puntata non era postribolare. I voyeur più incalliti potevano consolarsi su Retequattro con la Sharon Stone di "Basic Instinct 2": bionda, sofisticata, pericolosa tritauomini come la Patty nazionale. Da Mikhail, invece, c'era poco da sognare, e il racconto televisivo - fatto di ombre e nebbie mafiose - complicatissimo da dipanare. C'era un obiettivo da colpire, naturalmente. Indovinate quale. Già prima di accendere le telecamere, Santoro si diceva «stremato», tanto da rimpiangere addirittura i tempi dell'«Editto bulgaro», con il rischio che qualcuno prima o poi lo sollevi dalle angustie. Tanto era nervoso, il Nostro, da gridare alla «sleale azione di disturbo» per il forfait di un ospite, il leghista Castelli. Sostituito, questo, dal panchinaro Ghedini, che già nell'«anteprima», ingaggiava con Di Pietro una specie di incontro di catch verbale sul Lodo Alfano e lo scontro premier-Colle. Così, in una serata televisivamente plumbea, ci scappava una gag memorabile, con il leader dell'Idv che dopo dieci minuti vissuti da monaco zen perdeva le staffe urlando «Ma questo si è fatto uno spinello?». Mimava però il gesto della siringa su un braccio. C'è da tremare, se un ex pm ed ex ministro non conosce la differenza fra hashish ed eroina. Poi, con «la massima serenità», Di Pietro diceva che «Berlusconi è un delinquente. Tecnicamente si chiama delinquente colui che commette un delitto». Ghedini: «Meglio sarebbe stato se il lodo fosse sopravvissuto: non lo è, andremo al processo e verremo assolti». Ma il «processo» al premier, intanto, lo mette in piedi «Annozero». Tra apparenti rivelazioni e ricordi dei protagonisti, si racconta del «papello» con le «12 richieste» di Riina, e dunque dell'ipotizzata trattativa tra Piovra e Stato nella sanguinosa stagione che culminò con le morti di Falcone e Borsellino e con le bombe di mafia del '93. Materia da maneggiare in modo meno tendenzioso possibile, perché i personaggi evocati sono Vito Ciancimino (in studio c'è il figlio Massimo) il politico Dc che fu «garante» di un equilibrio tra il potere costituito e quello criminale; i capi dei capi Riina e Provenzano (la tesi è che il primo sia stato "venduto" per consentire al secondo di esercitare pienamente il ruolo di nuovo interlocutore delle cosche presso il Palazzo); il generale dei carabinieri Mario Mori, indicato come l'uomo della «trattativa» con l'organizzazione criminale. Cominciata, secondo Ciancimino jr, prima e non dopo (come invece traspare dall'inchiesta giudiziaria) la strage di via D'Amelio.   E attenzione a Di Pietro: «I Ros mi informarono che pure io ero nel mirino di Cosa Nostra, come Borsellino: mi fu fornito un passaporto di copertura e me ne andai con la famiglia in Costa Rica». Ci sono pentiti da citare, fatti da mettere in fila: al pubblico a casa serve il block-notes, come in un'aula di tribunale. Lo sforzo narrativo e investigativo di Mikhail è dare però peso all'idea che dietro a quei mesi orrendi vi fosse il patto scellerato tra chi tappava la bocca ai nemici con il piombo e chi stava per entrare in politica dopo l'uragano di Tangentopoli. Alle 22.10, con un volto illuminato dalla luce della Verità (la sua), Travaglio tira fuori il nome di Dell'Utri e dello «stalliere» Mangano accanto a quello di Berlusconi, e subito dopo quello di Provenzano. Viene evocata (accadrà anche più tardi con Ciancimino) la «lettera» in cui il capo mafioso scrive a Dell'Utri che «per evitare tristi eventi», si chiede la «disponibilità» di una rete tv a Berlusconi. Ghedini obietta che se la missiva esiste, il suo contenuto è semmai minatorio. Ma il gioco, a quel punto, è fatto, la tesi precostituita del «nuovo referente politico della mafia» diventa inoppugnabile (dal punto di vista santoriano), e anche se davvero il telespettatore medio non ci si raccapezza, ad «Annozero» gli spiegano che dietro l'ombra di don Vito Corleone chi può esserci, se non l'onnipresente Silvio? Un presunto scoop, a dar credito alle dichiarazioni dell'allora Guardasigilli Claudio Martelli, arriva comunque: «Mi fu formalmente comunicato dal direttore degli Affari penali del ministero della Giustizia Viviana Ferraro, principale collaboratrice di Falcone, che era venuta a trovarla il capitano dei Ros Giuseppe De Donno: l'aveva informata che Vito Ciancimino aveva volontà di collaborare, se avesse avuto le garanzie "politiche". Lei disse a De Donno: "faccia una bella cosa, prima di venire da me a chiedere garanzie e coperture politiche vada a riferire queste cose al magistrato competente e cioè a Borsellino"». Accadeva, ricorda Martelli, nel trigesimo della strage di Capaci, in cui era morto Falcone, cioè tra il 22 e il 25 giugno 1992. Traduzione: Borsellino era venuto a conoscenza della trattativa tra Stato e Mafia e c'era il rischio che si sarebbe opposto ad essa. Saltò in aria in via D'Amelio meno di un mese dopo. Sua moglie Agnese ora chiede ai pentiti di rivelare chi siano i mandanti di quell'eccidio. Non è materia di insinuazione politica. O mediatica.

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