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Quel pm schierato contro il lodo Alfano

Fabio De Pasquale

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«L'articolo 3 della Costituzione dice che siamo tutti uguali di fronte alla legge. E allora perché dovrebbe esistere un trattamento speciale per il premier e per i ministri?». Una domanda che, unita all'aggettivo-accusa «criminogeno» riferito al lodo Alfano, ha convinto il Consiglio superiore della magistratura ad aprire una pratica nei suoi confronti. Siamo nel settemnre del 2008. A parlare, in aula, avvolto nella sua toga nera, durante il processo sulla compravendita di diritti televisivi che vede imputato Silvio Berlusconi, è il pubblico ministero Fabio De Pasquale. A sollecitare l'apertura del fascicolo (un «atto dovuto» per il Csm) sono i consiglieri laici del Pdl Gian Franco Anedda e Michele Saponara, che chiedono se esistano i presupposti per il suo trasferimento d'ufficio. Le frasi del pm fanno infuriare anche il diretto interessato, il Guardasigilli, che tuona: «È inaccettabile che un pubblico ministero in pubblica udienza definisca "criminogena" una legge dello Stato». Ma Palazzo Marescialli «assolve» il magistrato. Il plenum del Consiglio, su proposta della prima commissione, archivia il caso, approvando la delibera a larghissima maggioranza con il solo «no» dei due laici di centrodestra. Nel documento si sottolinea che non c'é stata alcuna offesa alle quattro alte cariche dello Stato contemplate nel lodo. Il pm ha esercitato durante la requisitoria al processo Mediaset una «sua facoltà» riconosciutagli dall'ordinamento. E se ha usato espressioni «retoriche», queste non avevano «valenza offensiva per alcuno dei soggetti a cui favore la legge in questione dispone la sospensione dei processi eventualmente pendenti». Ma chi è Fabio De Pasquale? Siciliano, nato a Messina mezzo secolo fa, garbato, ironico, privo del piglio aggressivo del collega Antonio Di Pietro, fa il giudice per otto anni. Nel 1991 debutta nei panni della pubblica accusa. A Milano. E nel capoluogo lombardo l'anno dopo esplode l'inchiesta Mani Pulite. Tempi turbolenti, di gloria e di fatica, per i giudici milanesi. Ma tempi durissimi per alcuni imputati, personaggi eccellenti che, per la prima volta, finiscono dietro le sbarre. L'era delle polemiche è ancora lontana, però il 20 luglio del 1993 il «mito» del pool milanese subisce un duro colpo. L'ex presidente dell'Eni, Gabriele Cagliari, si uccide nel carcere di San Vittore infilando la testa in un sacchetto di plastica fissato al collo con una stringa. La sua morte offusca l'immagine dei giudici «anti-corruzione», l'ultima lettera del manager suicida punta l'indice sul modo in cui la custodia cautelare è stata usata nei suoi confronti. De Pasquale finisce nel mirino: il sostituto procuratore Guglielmo Ascione lo iscrive sul registro degli indagati. Ipotesi di reato, abuso d'ufficio. L'avvocato di Cagliari, Vittorio D'Aiello, racconta che il magistrato il 15 luglio interroga l'ex presidente dell'Eni e manifesta l'intenzione di rimetterlo in libertà. «Io devo liberarla perché ha confessato di essere a conoscenza che in ordine alla vicenda del contratto fra Eni Padana e Sai vi sarebbero stati versamenti di somme rilevanti in favore dei partiti», dice De Pasquale secondo D'Aiello. Nei giorni successivi, tuttavia, il pm cambia idea. E Cagliari si toglie la vita. Anche in questo caso, comunque, per De Pasquale non ci sono conseguenze. L'inchiesa passa al sostituto Di Martino, che chiede l'archiviazione. Favorevole pure il «verdetto» degli ispettori inviati dall'allora ministro della Giustizia Filippo Mancuso: nessun collegamento fra il suicidio del manager e la decisione del pm messinese.

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