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"Vendere? La mafia non vuole"

Il Cafè de Paris di via Veneto sequestrato dai carabinieri del Ros e dalla Guardia di Finanza

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«Non posso vendere il Cafè de Paris, la mafia mi ha detto di non farlo». È l'espressione che legherebbe l'ex barbiere Damiano Villari alla volontà dei signori della 'ndrangheta calabrese. Che dimostrerebbe il suo ruolo fiduciario di faccendiere incensurato della cosca Alvaro sulla piazza di Roma: la mala metteva i soldi, lui li ripuliva investendoli. Sono i sospetti dei carabinieri del Ros, dello Scico della Finanza e delle procure di Reggio Calabria e Roma. Spetta a ora a Villari raccontare la sua versione. Le parole dell'ex barbiere dell'Aspromonte sono messe nere su bianco nel decreto di sequestro del Tribunale di Reggio Calabria dei beni gestiti da Vincenzo Alvaro. Villari parla nel settembre 2005 col libanese Tabib Abdalla Seed, in ballo per la compravendita dello storico locale di via Veneto. Per averndolo acuistato da poco, Villari vorrebbe cederlo ma non può. Per la cosca via Veneto è in luogo di incontri importanti con personaggi insospettabili. Lo conferma pure il legale del nordafricano, l'avvocato Angeloni: «Nel mio studio ho incontrato Villari unitamente a un'altra persona che al momento non sono in grado di generalizzare. In tale occasione il Villari mi riferì che lo stesso nella vendita del Cafè de Paris non era il solo a decidere. Pertanto a seguito di pressioni ricevute da altri soci calabresi non poteva vendere l'attività». La storia del Cafè de Paris comincia nel giugno di quattro anni fa. Villari acquista il locale di via Veneto dalla famiglia Todini. Il volume d'affari è di 55 milioni, alla fine della trattativa il prezzo fissato è di 2 milioni e 200 mila euro. Ai vecchi proprietari l'ex barbiere sborsa 900.000 mila euro, col resto ripiana i debiti. Villari al venditore non paga tutto subito: ne versa 200 mila di caparra, 100 mila dopo la firma. Poi fa una cosa strana: torna da Todini e dice che ha difficoltà a pagare gli altri assegni. Così gli chiede se può avallare una fidejussione, che a sua volta Villari garantisce col 20% delle quote del Cafè. Se l'ex barbiere non paga, Todini ridiventa socio. Spiegano gli investigatori: «La mala mette i soldi, la responsabilità di gestirli però è tutta di chi li riceve, spetta a lui distriscarsi negli affari». Se Villari su piazza risulta il direttore del Cafè, pèer il fisco è quasi uno spiantato: nel '96 dichiara 8 milioni e 473 mila lire, nel 2005, anno in cui compra lo storico bar di via Veneto, denuncia 2 mila e 256 euro. «Ad eccezione del 2007 - scrive il Tribunale del capoluogo calabrese - Villari ha dichiarato redditi appena sufficienti al sostentamento del nucleo familiare, del tutto incongrui rispetto agli acquisti effettuati».

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